Come nella pièce teatrale di Ennio Flaiano “Il Marziano a Roma”, la lunga apparizione in pubblico di qualsivoglia novità eccezionale finisce per farla scivolare gradatamente nella normalizzazione banalizzante; così anni di esposizione mediatica stanno rarefacendo l’aura di ineffabile eccezionalità che avvolgeva i presunti alieni pentastellati. Grazie al fenomeno “chiamato” – di volta in volta – assuefazione o metabolizzazione.

Quindi, se ci stiamo predisponendo all’ipotesi di un governo Cinquestelle nelle fatidiche elezioni previste per l’anno prossimo, allo stesso modo impariamo a sdrammatizzare buona parte dell’apparato retorico del Movimento; una volta sottoposto alla prova finestra dell’applicazione quotidiana (e ai suoi effetti demistificanti). In primo luogo inizia a essere smontata la mitologia dell’e-democracy; la presunta qualità sorgiva della creatività popolare canalizzata dalla rete.

A parte l’ormai accertata sporadicità dell’effettiva partecipazione online, come ne danno ennesima conferma le “comunarie” per pochi intimi che stanno individuando i candidati sindaci del M5S per le imminenti amministrative (mettendo da parte il penoso affaire Cassimatis di cui già più volte si è detto), la democrazia rivestita digitalmente può dare utili contributi – consultivi e sensibilizzanti – nella circolazione preliminare delle informazioni, mentre la fase dell’elaborazione vera e propria richiede ben altro della raccolta di luoghi comuni a mezzo crowdfounsourcing. Come lo sta a dimostrare il secondo capitolo elaborato a mezzo click dai militanti M5S:la presunta “politica estera 2.0” Cinquestelle. Ossia un’imbarazzante raccolta di luoghi comuni all’insegna di un barcamenarsi che riporta alla memoria la tradizione italica dei giri di valzer; che nel secondo dopoguerra furono appannaggi andreottiani e morotei. D’altro canto perfino la tanto strombazzata costituzione islandese, presunta apoteosi del “2.0”, ha dimostrato che la faccenda è un po’ più complicata di quanto pensino gli apprendisti stregoni della democrazia liquida: infatti, dopo un po’ di passaggi rituali su Facebook, Twitter, Youtube e Flickr, il testo in questione è finito nel marzo 2013 sotto le forche caudine del Parlamento di Reykiavik che lo ha ampiamente rimaneggiato e affossato.

Ma prima ancora dell’appiattimento dei contenuti imposti dalle procedure, quanto sta emergendo in maniera inquietante è l’arcaicità dei modelli culturali proposti dai sedicenti iper-moderni chiamati a costituire la nuova classe dirigente 2.0. E non sono soltanto le gaffe o gli svarioni storici/geografici/culturali – dal Pinochet Venezuelano al sociologo Gallini – in cui da tempo incappa il personaggio di punta dell’annunciato rinnovamento; il vice presidente della Camera Luigi Di Maio.

Il sospetto di inadeguatezza, che sta diffondendosi, nasce dalla sensazione di trovarsi davanti a palesi casi di parvenu senz’arte né parte, i cui limiti sono stati portati alla luce dalla sovresposizione mediatica. Il giovane Di Maio – infatti – più parla e più rivela la provenienza da un milieu neppure sfiorato dalla modernizzazione, quale il profondo Sud della periferia campana intrisa di umori retrogradi e reazionari. L’Italia che Edward Banfield rappresentava negli anni Cinquanta con la categoria del “familismo amorale”. Per cui i rumeni sono tutti ladri e la domenica i negozi vanno chiusi perché il consesso parentale possa riunirsi felicemente attorno al desco imbandito, dopo la rituale celebrazione della santa messa. L’orizzonte da Strapaese neppure lambito da processi di secolarizzazione, che ci riporterebbe al tempo in cui “Cristo si fermava a Eboli”.

Consegnare uno Stato, che comunque aspira a essere avanzato, a questi personaggi col vestitino della festa da sposo di paese sembra l’anticamera del ritorno al passato. Come promettono suicidi civili gli altri strapaesani Renzi e Salvini; per non parlare del falchetto brianzolo Berlusconi.

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