La giustizia e il diritto come burger pieni di salse gustose. Il delitto, la faccia del criminale, la macchia di sangue, le manette invocate contro il “colletto bianco” che ha tradito i risparmiatori, l’ultima legge anti corruzione, il fumetto del buono e quello del cattivo, il terrorista che si fa intervistare con aria beffarda come le rituali montagne di fiori dove qualcuno ha scagliato una macchina o un camion pensando di poter veramente essere eroe per un giorno. L’importante è che il “big burger” del crime abbia le sue salse gustose e vertiginose. Il reale importa poco, anzi nulla. Ciò che conta è che il menù del crimine, della giustizia e della legge propongano dei succulenti piatti da divorare rendendo bene e male una stessa cosa, qualcosa da vendere e comprare.capitale

“Se non incontra limitazioni il capitale si prende l’intera vita”. Così diceva Carlo Marx. Così sembra essersi trasformata la società di oggi, anche quella che attiene agli aspetti più ancestrali, basti pensare al secondo mestiere più antico del mondo e cioè il fare giustizia. Anche questo sta diventando una vendita di merci come il primo, il più antico, quello che rende merce la persona. Il crime, come viene chiamato con un inglesismo alla moda, altro non è che la vendita, come prodotto da banco di un ipotetico supermercato, del bene e del male. La sofferenza delle vittime come la sofferenza del colpevole. Insieme agli ortaggi e alla frutta, ai profumi e ai surgelati, si vende il fumetto dell’assassino, la traccia di Dna sul luogo del crimine o l’ultima trovata legislativa in tema di contrasto alla corruzione. Ciò che conta non è l’efficacia dell’accertamento giudiziario, il rispetto della legge o l’approvazione di norme utili. L’importante è la vertigine che tutto ciò offre.

Non la realtà, ma la vertigine della realtà è quanto chiede il nostro mondo pop. Il grande hamburger del crime non vuole più il processo come luogo dove far valere le regole di diritto, prodotto di tanti anni di conquiste culturali. La rappresentazione pop del crimine deve solo offrire emozioni che, indifferentemente, possono essere di sangue e di manette, di bene e di male; mescolati tra loro per rendere l’uno indifferente all’altro. Perché, se il crimine diviene una merce, deve essere vendibile come momento vertiginoso, non certamente come complesso procedimento giudiziario in cui accertare la responsabilità o l’innocenza in base a delle regole rigorose e dove poter realmente distinguere il bene dal male. Il miglior venditore è quello che occupa tutte le fasce del mercato. Il crime deve dunque essere indistintamente bene e male: solo vertigine.

Dove sono finiti il bene e il male? La cifra più perniciosa di questa reificazione e trasformazione del crimine, della giustizia e della legge in “cose” da vendere nel supermercato globale, è che il male non è più “altro” rispetto al bene. E dunque il bene, non distinguendosi dal male, non c’è più nella sua essenza etica ed estetica. Nel mondo della giustizia il bene e il male erano canoni fondamentali: il bene poteva essere rappresentato dalla condanna del colpevole o dall’assoluzione dell’innocente. Il male era rappresentato dal delitto e dalla ferita che questo causava nella società (Durkheim). Se la cifra etica diventa la mera vertigine, ecco che bene e male si dissolvono nella loro essenza profonda e l’uno non è più altro rispetto al suo contrario. E la società che si nutre di crime diviene eticamente indifferente (Arturo Mazzarella, Il Male Necessario) e cognitivamente pronta a fare il bene od il male senza cogliere differenza di sorta tra l’uno e l’altro. Cercando solo la vertigine dell’attimo fuggente.

Che fine fa la giustizia una volta che diventa un prodotto da banco? E’ la fine delle regole che reggono la funzione giudiziaria ma è anche la fine del significato profondo della giustizia: la redenzione attraverso l’assoluzione e la retribuzione attraverso la pena. I condannati come gli assolti diventano dei “vuoti a rendere”; “cose” oramai inutili da cestinare in una grande discarica differenziata: condannati di qua, assolti di là. Tutti uniti dalla perdita di valore, dopo essere stati il nuovo modello all’avanguardia per qualche mese. Fino all’avvento di un nuovo oggetto-crime, più nuovo e più “smart”.

E le professioni protagoniste della funzione giudiziaria? Sono la prima coscienza infelice, per dirla con Hegel, di questa mercificazione della giustizia che ha tolto ogni valore alla funzione classica e non mercificata della giustizia. L’avvocato tradizionale si è trasformato, da professionista colto del Novecento, in un apolide della giustizia schiacciato dall’imperialismo imposto dal neo-colonialismo forense delle grandi Law Firm, scintillanti e al contempo alienanti ma costruite a uso e consumo di questa mercificazione “a ore” della giustizia. I magistrati sono stati, anch’essi, stati totalmente svuotati della loro funzione di regolatori della società e dispensatori di giustizia. Privando il processo della sua centralità rispetto al fare giustizia è del tutto evidente che il magistrato si trova a recitare un ruolo che non ha più nessuna ricaduta “alla Durkheim” sul tessuto sociale.

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