La Turchia ha scelto. Ha virato verso la repubblica presidenziale. Ha imboccato la via, probabilmente senza ritorno, verso la trasformazione in un’autocrazia di stampo mediorientale. E’ questa la prima fotografia del paese all’indomani del referendum costituzionale turco del 16 aprile, che ha visto l’Evet, il ‘sì’, vincere di misura con il 51.22% sull’Hayir, il no (al 48.64%), consegnando un paese del tutto spaccato, una volta espressione di un combinazione tra il conservatorismo religioso, il nazionalismo e la crescita economica delle trainanti Tigri Anatoliche.

Il presidente Recep Tayyip Erdogan, leader dell’AKP, nel suo primo discorso al termine dello spoglio, ha parlato di cambiamento storico, della “democrazia matura” in Turchia. “Oggi è il giorno della vittoria”, ha detto, richiamando a gioire per il risultato anche chi ha scelto il fronte del ‘no’. “I risultati del referendum hanno portato a qualcosa che spero sia benefico per il nostro paese, a dimostrazione di una maturità eccezionale e che ha votato a favore del cambiamento costituzionale”, ha aggiunto Erdogan. Non è mancato un accenno, nelle sue parole, al golpe di luglio: da quando cioè nel paese vige lo stato d’emergenza, che ha scandito anche le operazioni di voto di ieri. “Il nostro è un sistema democratico. Oggi la Turchia ha compiuto una scelta storica”.

La percentuale raggiunta dai sostenitori del ‘no’ ha assottigliato di molto il peso specifico della vittoria dell’Evet, in particolare a fronte dell’alta affluenza al voto (circa l’86% degli aventi diritto). A guardare la mappa fornita dall’agenzia di stampa filogovernativa, l’Anadolu Haber Ajans, che dopo la chiusura dei seggi alle 16 (ora italiana) ha cominciato a colorarsi regione per regione evidenziando la scelta referendaria, il ‘no’ si impone nelle città più grandi, come Istanbul e Ankara, roccaforti dell’AKP, e Smirne. Sorprende meno il no della zona del sud-est curdo e del più laico Mar Egeo. La protesta montata nelle settimane scorse da parte del fronte del no si è alla fine rispecchiata anche nelle percentuali di voto del Mar Nero e dell’Anatolia centrale, di ispirazione più conservatrice. Il voto all’estero sembra poi essere una delle notizie più interessanti: nel resto del mondo, i seggi consegnano una vittoria del ancora più forte che nella patria della mezzaluna, con punte in Olanda, Germania e Austria del 76,70% per il sì, contro il 23,30% per il no.

E se la Turchia ha cambiato il suo volto in un giorno, dopo un processo riformista durato anni, in questa giornata campale non è mancata la prova per la sicurezza del paese. Il presidente Erdogan è arrivato al seggio nel quartiere di Uskudar a Istanbul, scortato da militari armati e con i cecchini schierati sui palazzi intorno. Non sono mancati gli incidenti ai seggi: 3 i morti nella zona di Diyarbakir, dove uno scontro acceso, degenerato in sparatoria, si è registrato tra membri del partito filo curdo, l’HDP, e alcuni dell’AKP. Un altro momento di tensione si è avuto quando Ali Bayramoglu, ex sostenitore del partito del Sultano e giornalista del quotidiano Yeni Safak, è stato fortemente contestato da alcuni simpatizzanti dell’AKP proprio mentre si stava dirigendo ai seggi per votare.

L’ombra dei brogli intanto si fa sempre più spessa e pesante. A far sentire la propria voce sono i membri del Chp, il partito repubblicano del popolo: i laici sono decisi a contestare il 60% dei risultati e hanno parlato di 2,5 milioni di voti incerti. Merak Aksener, leader nazionalista, ha dal canto suo parlato di dati di scrutinio parziali e manipolati. Il tutto a fronte di una missione dell’OSCE, presente in Turchia con 24 osservatori da 7 paesi, che nei giorni scorsi ha prodotto un report (bollato poi come “nullo” dal presidente Erdogan) che evidenziava lo stato di emergenza in cui si è svolto il referendum.

Con il sì non cambia solo la struttura statale di un paese che in tanti avrebbero voluto a modello dell’intero Medio Oriente già alla vigilia delle cosiddette ‘primavere arabe’ e che ha deluso le aspettative di molti che vedevano in lei il “ponte” con l’Europa. Dopo decine di emendamenti alla riforma presidenziale come presentata originariamente, il pacchetto arrivato al voto in questa domenica pasquale prevede 18 modifiche costituzionali, oggetto di discussione da quando Erdogan era ancora sindaco di Istanbul, e cambia totalmente l’assetto nella divisione dei tre poteri, che adesso risulta polarizzata. Nello specifico, il presidente verrà eletto direttamente dal popolo, potrà legiferare per decreto e assumere tutti i poteri finora in capo al primo ministro, la cui figura verrà abolita. Il presidente avrà inoltre il controllo sul potere giudiziario e sceglierà i ministri. Scende il numero dei giudici della Corte Costituzionale, che passano da 17 a 15 (12 dei quali nominati dallo stesso Presidente). I componenti dell’Assemblea di Ankara, seppur di fatto depotenziata nei suoi poteri, che da oggi potrà solo chiedere informazioni sull’operato del governo senza poter presentare la mozione di sfiducia, arrivano a 600. A loro il potere della messa di stato d’accusa del presidente, che richiederà la maggioranza assoluta. Un presidente che potrebbe restare alla guida della Turchia per più tempo del padre della nazione, Ataturk. La nuova costituzione sarà effettiva nel 2019 e azzererà di fatto il primo mandato di Erdogan, consentendogli di restare in sella fino al 2029, o addirittura fino al 2034 in caso di scioglimento anticipato del Parlamento.

Ad ogni modo, Erdogan avrà adesso mano libera su tutto: il prossimo passo potrebbe essere l’indizione di un nuovo referendum, questa volta sulla pena di morte, abolita nel 2004 quando lo spirito europeista nel paese sembrava essere una certezza. Ed è così che la scelta referendaria fa allontanare ancora di più il paese del Sultano dalla vicina Europa, creando una frattura su quel ponte che in un tempo non tanto lontano rappresentava una finestra tra Est e Ovest.

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