“I problemi della tutela, presupposto fondamentale della cultura di un Paese veramente moderno, discussi finora solo da studiosi e da tecnici, devono essere conosciuti da tutti gli italiani, perché contribuiscano a formare una coscienza storica e un costume civile di vita. Soltanto così potrà attuarsi una politica attiva e coordinata per la salvaguardia di un patrimonio culturale di valore inestimabile che appartiene all’intera umanità e dev’essere tramandato alle future generazioni”.

Queste parole facevano parte del testo che introduceva il catalogo alla mostra fotografica Italia da salvare di Renato Bazzoni, architetto ispiratore del Fai, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo reale a Milano. Era il 7 aprile 1967. Indro Montanelli scriveva sul Corriere della sera che le 400 immagini della mostra, scelte tra le 30mila scattate da Bazzoni in giro per l’Italia, bastano “per farci arrossire davanti a noi stessi e al mondo intero”. A 50 anni di distanza, la mostra viene riproposta dal Fai. Dopo gli allestimenti alla Cavallerizza di Milano, al Teatrino di Vetriano in provincia di Lucca, al Teatro Ariston di Sanremo, al Palazzo Coelli di Orvieto e al Palazzo Baldeschi di Perugia, l’esposizione arriva alla Villa Reale di Monza.

Il titolo è cambiato in Conoscere e amare l’Italia. Per il resto, ogni cosa sembra essersi fermata all’aprile di quell’anno. I centri storici sono terra di conquista per attività commerciali di ogni tipo, la cementificazione prosegue pressoché indisturbata, il patrimonio storico-artistico e archeologico cosiddetto “minore” viene sostanzialmente abbandonato, mentre quello maggiore viene valorizzato, senza essere tutelato.

Senza contare i nuovi quartieri periferici che crescono attorno alle grandi città, le campagne, le zone collinari e di montagna che vengono abbandonate e le coste del nord e la dorsale adriatica invase da resort e villaggi turistici di ultima generazione. Non si è fermata la distruzione del Paese, in compenso non è progredita quanto avrebbe dovuto “la coscienza storica e il costume civile di vita” degli italiani. Quel che Antonio Cederna sottolineava nel contributo, all’interno del catalogo, Gli Italiani e l’Italia è ancora sfortunatamente attuale.

Le criticità del 1967, forse mitigate da un proliferare di associazioni nei territori, sono quelle del 2017. Scarso senso civico e un falso mito del progresso che tutto giustifica, continuano ad essere ancora troppo di frequente i caratteri distintivi non solo dell’italiano medio ma di gran parte della classe politica che rappresenta il Paese. Lo dimostrano le misure scellerate del presente e quelle del passato recente. Piani casa regionali approvati, che agevolano nuove cubature. Piani paesaggistici dei quali, nella maggior parte delle regioni, si continua a discutere, senza giungere a un testo definitivo. Una legge sul consumo del suolo ancora non esiste.

In compenso, l’abusivismo edilizio non sempre è contrastato come sarebbe necessario. Tutela di monumenti e di paesaggi, “assottigliata” da politiche nelle quali le soprintendenze da organi di tutela sono state trasformate in uffici ai quali trasmettere richieste. Per la realizzazione dell’opera pubblica come di quella privata. Richieste, naturalmente tutte accettate, preventivamente. Per questi motivi, Italia da salvare di Bazzoni è una mostra da vedere. Anche per osservare i primordi di quei fenomeni degenerativi che ora sono dilagati. Insomma, passare in rassegna le foto di Bazzoni è un viaggio nel tempo, alla ricerca del degrado. Un tour attraverso le occasioni perdute.

 All’inizio di Renato Bazzoni e l’Italia da salvare, libro pubblicato in occasione della mostra alla Villa Reale, Alberto Saibene racconta che il padre del Fai, di fronte al disastro dell’Italia degli inizi degli anni 60, avrebbe pronunciato queste parole: “Qui sta andando tutto alla malora. Bisogna fare qualcosa”.

Ecco il punto, forse. “Bisogna fare qualcosa”. Senza dimenticare che, come sosteneva Bazzoni, “I problemi della tutela, presupposto fondamentale della cultura di un Paese veramente moderno (…) devono essere conosciuti da tutti gli italiani, perché contribuiscano a formare una coscienza storica e un costume civile di vita”.

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