Qualche giorno fa abbiamo incontrato Francesco Motta prima del concerto al Teatro Regio di Parma, organizzato da Barezzi Festival per la rassegna Tracks. Davanti al pubblico del Palazzo del Governatore della città ducale, Francesco ha regalato le sue “9 canzoni 9”, lasciandosi attraversare da una serie di domande sulla sua vita pubblica e privata.  L’intervista è stata inserita come extra in chiusura della mostra Le cento facce della musica italiana organizzata da Rolling Stone Italia in collaborazione con Giovanni Gastel, il Comune di Parma e Ankamoki. Sentite che cosa ci ha detto.

Francesco, ti faccio un nome, Riccardo Sinigallia: sbizzarrisciti.
Ci siamo incontrati la prima volta due anni fa. Da quell’incontro è scaturito un legame molto forte, è come se ci conoscessimo da quarant’anni: siamo molto amici. Per la mia scrittura, il suo aiuto è stato fondamentale, con lui ho messo a fuoco definitivamente i testi del disco. Riccardo mi ha fatto capire dove avrebbe dovuto dirigersi: è stato un lavoro lungo ma di grande soddisfazione, senza di lui ciò non sarebbe potuto accadere.

Dove si è diretta la tua scrittura?
Verso la comprensione e la trasparenza. A un certo punto ho capito che l’urgenza era quella di farmi comprendere, di scrivere testi chiari, in grado di essere capiti.

Leggendo i crediti del disco, ho notato che suoni: chitarra classica, chitarra elettrica, basso, batteria, percussioni, timpani, mandolino, voce, piano, rullanti, darbuka, batteria elettronica e per concludere. Il disco te lo sei registrato tu?
Sì, è vero: suono tutti questi strumenti. Male, ma li suono. (Risata)

Il tuo disco ha messo d’accordo tutti, critica e pubblico: ha ricevuto la Targa Tenco per il miglior album d’esordio, il premio speciale Pimi del Mei. Immagino non ti aspettassi tutto questo clamore, no?
Non avevo alcuna aspettativa: l’obiettivo era quello di fare il disco che avevo in testa. Per arrivare a farlo mi è occorso molto tempo: è stato un parto lungo e difficile.

Prima di parlare de “La fine dei vent’anni”, proviamo a recuperare gli anni – cosiddetti – della gavetta.
Dieci anni passati a mangiare Camogli e a pisciare in autogrill. Ricordo che i primi tempi con la band, non avevamo nemmeno la macchina, ci spostavamo in treno; capirai, in treno, con gli strumenti. Sono stati anni meravigliosi, difficili, duri.

Ti ho incontrato la prima volta a Prato al Capanno Blackout: mettevo i dischi, a margine di un vostro concerto con i Criminal Jockers. Mi colpì molto il furore della vostra proposta. Come collochi quel periodo della tua vita? Adesso, le vostre strade si sono separate?
In effetti, l’impatto sul pubblico era potente. Facevamo punk e io suonavo la batteria in piedi, un po’ come quello dei Violent Femmes. Eravamo fissati con la loro musica, sono stati una fonte d’ispirazione importante. Tornando al nostro rapporto, adesso siamo cresciuti: intenti e volontà portano spesso in direzioni diverse. Non è stato un passaggio facile per le nostre vite, ma ci vogliamo bene e tutti e tre viviamo ancora di questa passione. Se ci pensi non è affatto scontato.

Devi aver compiuto su di te un lavoro importante per arrivare a realizzare un disco così distante da ciò che eri con i Criminal Jokers e suonare in solitaria.
Come ti dicevo, è stato un processo lungo. Devo ringraziare i miei genitori, Riccardo, la mia fidanzata e tutte le persone che mi hanno aiutato. Non ultima, la mia meravigliosa band: loro erano presenti quando abbiamo cominciato, ancora prima di tutti.

Hai scritto testi importanti definendoli ‘politici anche quando parli d’amore’. In teoria, le due cose sarebbero incompatibili. Cosa vuol dire?
Vuol dire mettersi nella condizione di dire quello che pensi. Non è così scontato, ma se riesci, allora, hai una grande opportunità per aprirti alla verità. Per esempio, “Mio padre era un comunista” è una canzone d’amore rivolta ai miei genitori, eppure possiede una valenza politica forte, dedicata a mio padre, a mia madre e a mia sorella.

Proviamo a mixare, ritengo che il nuovo cantautorato italiano sia una possibile fucina di talenti. Sei d’accordo?
Sono d’accordo, purtroppo non tutti riescono a emergere dall’anonimato come meriterebbero. Anziché guardare sempre al passato, la stampa italiana dovrebbe rivolgere l’attenzione ai talenti esistenti, purtroppo sommersi. Meriterebbero di essere valorizzati, invece si guarda al presente soltanto per evocare il passato. Il cantautorato italiano, per storia e tradizione, non si può discutere, ma anche nel presente esistono artisti che scrivono canzoni meravigliose. Poi, è chiaro, senti una brano come “La Donna Cannone” e magari capisci che quel passato difficilmente potrà essere eguagliato. Forse però l’intento non è quello, è semplicemente andare avanti.

Hai citato De Gregori, che riporta a una certa tradizione legata alle parole. Se affermo che i tuoi testi in pratica ‘fanno’ la canzone, dico bene?
Dici bene. Il testo per la mia musica è tutto.

Cosa mi dici allora di Roma Stasera? Il sound a contorno richiama una certa struttura e oserei definirlo un pezzo ipnotico, un mantra. Il tuo passato, la tua cultura musicale riaffiora prepotentemente.
L’idea della ripetizione mi affascina: una cosa presente nella musica africana. Immagino tu conosca i Tinariwen, dopo aver assistito a un loro concerto, le mie percezioni musicali sono completamente cambiate.

Hai dichiarato: “Scrivere canzoni è un processo che ti porta a mettere sul tavolo il cuore, è terapeutico, ma non è facile né divertente”. Proviamo a specificare meglio.
Come dicevo, l’urgenza è di farsi comprendere mettendosi a nudo, un processo che attinge alle mie fragilità. Non è esattamente un divertimento, anzi, è spesso doloroso.

Hai dichiarato: “La musica si può fare solo per amore della musica e non per amore del successo”, affermazione che riconduce ai Talent Show. Cosa potresti aggiungere?
Non c’è molto da aggiungere: i talent non possono essere una scorciatoia per arrivare a fare belle canzoni. Anche perché di scorciatoie non ne esistono. La gavetta te la devi fare. Come dice Federico Fiumani: “Per fare belle canzoni, occorre fare la fame, soffrire, fare debiti!

Stai lavorando al disco nuovo, senti la pressione?
Oddio, non ti ci mettere anche tu, eh?! Ho una canzone pronta, una canzone e mezza. Magari sarà terminato quando compirò quarant’anni. A quel punto, potrai già immaginare quale titolo potrebbe avere. (Risata)

Cosa farai dopo la festa di fine tour all’Alcatraz?
Analisi. Dopo cento date in un anno ne avrò bisogno. (Risata generale)

Senti, Francesco, siamo alla fine. Grazie per essere stato con noi. La nostra chiacchierata, nonché le canzoni che ci hai fatto ascoltare, saranno pubblicate anche sul blog “9 canzoni 9 … di Marco Pipitone”  sulle pagine de Il Fatto Quotidiano.
Grazie a voi! È stato bello.

 9 canzoni 9 … scelte da Francesco Motta

Lato A

E invece io • Riccardo Sinigallia

Utopia (overtoure) • Cristobal Tapia de Veer

La Vie a 2 • Manu Chao

La Domenica • Giovanni Truppi

Lato B

La Donna Cannone • Francesco De Gregori

Joanna • Serge Gainsbourg

Com’è Profondo il Mare • Lucio Dalla

Ecstasy • Lou Reed

Coprifuoco • Le Luci della Centrale Elettrica

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