Anche se apparentemente potrebbe sembrare un ponderoso volume di studi etnomusicologici, questo complesso lavoro di Domenico Ferraro dedicato a Roberto Leydi e il “Sentite buona gente” (Squilibri, 2015) è molto di più.

Si tratta di un poderoso e avvincente affresco del dibattito musicale, letterario e politico italiano, a partire dall’immediato dopoguerra; un racconto – informatissimo e ben calibrato – di un’avventura intellettuale che culminò in uno spettacolo – il Sentite buona gente, del 1967, appunto – che portò sul palco di un teatro ‘borghese’ gli interpreti ‘dilettanti’ ma unici di un vastissimo patrimonio popolare e che segnò e rappresentò profondamente il dibattito culturale e artistico di quegli anni, costituendo, probabilmente, il punto più avanzato di un dialogo fitto, quanto necessario, tra ricerca sul campo e sua traduzione teatrale.

In occasione del cinquantennale della sua prima rappresentazione all’interno della programmazione del Piccolo di Milano, questo libro è a sua volta un piccolo avvenimento per la messe di documenti che raccoglie e analizza, per il suo corredo multimediale, per la capacità che ha di mettere in luce convergenze e contraddizioni della collaborazione tra due figure intellettuali così diverse, come quelle di Leydi e Carpitella che pure unitamente lo firmarono.

Seguire Leydi e la mole vastissima dei suoi interessi permette all’autore (e al lettore) di incontrare molte delle figure di spicco del panorama culturale e artistico italiano: da Vittorini a Eco, da Berio e Berberian a Spina, Nono, Fo, Sanguineti, Pasolini, Fortini, Strehler, Grassi, Gaber, Jannacci, Mila, oltre naturalmente a etnomusicologi del calibro di De Martino, Carpitella e Bosio e di sodalizi fondamentali come quello del Nuovo Canzoniere Italiano. E visto che quelli erano gli anni di un’esasperata ideologizzazione dell’arte e della cultura, il volume, sia pure lateralmente, offre squarci memorabili della fitta rete di relazioni, polemiche, dissidi che legarono (o allontanarono) il Pci a molti degli intellettuali italiani.

Ovviamente, se tutto ciò è stato possibile si deve, prima di tutto, alla figura stessa di Leydi, intellettuale assolutamente ‘plurale’, capace di spaziare con i suoi interessi dalla musica contemporanea al pop, dagli studi demologici al jazz e all’avanguardia, da Berio ed Eco all’impegno nelle trasmissioni (forzatamente pop) della Rai.

Ma lo si deve anche all’autore del volume, che etnomusicologo di formazione non è, essendo la filosofia il suo principale campo di studi. Eppure, è da sempre un cultore del campo sensibilissimo e capace, nella sua attività di direttore editoriale di Squilibri, di essere stato mallevadore di importanti volumi dedicati alla storia della musica popolare (e non solo) e dei suoi sviluppi, ma restando sempre attento ai dati culturali e artistici più generali, dalla poesia al fumetto.

Ferraro tiene sempre desto il suo interesse sul bisogno di prassi artistica che muove Leydi, sulla sua predisposizione costante a montare macchine sceniche capaci di amplificare adeguatamente tutte le esplorazioni dell’etnomusicologia.

Questo bisogno di trasformare l’acquisito dato di ricerca in evento spettacolare non a caso trova spesso sponda nel brechtiano Piccolo Teatro di Milano, diretto da Strelher e Grassi: “Il teatro dev’essere divertente”, sosteneva il grande maestro tedesco. Anche per Leydi tutte le conquiste segnate dalla ricerca sul campo, tutti coni d’ombra dissolti grazie al lavoro di esperti del calibro di Carpitella, per acquisire senso pieno, dovevano farsi azione nel presente. Non a caso Leydi, prima di tutto cultore del jazz e del folk americano, tra i primi a interessarsi al lavoro di Lomax, cerca un punto d’equilibrio tra la teatralizzazione integrale perseguita da Fo nel suo Ci ragiono e canto e l’accuratezza filologica e spesso sin troppo sospettosa delle luci della ribalta di Carpitella.

Leydi insegue la formula di un cross over equilibrato, grazie al quale la tradizione riesca a farsi atto nel presente, sia pur carica delle inevitabili contraddizioni; vuole realizzare quella che potremmo definire una transcreazione dell’autenticamente popolare che, a partire dal rispetto di una serie di sue caratteristiche fondamentali, sia però capace di offrire questa memoria al presente; capace insomma di gestire quei dislivelli di cultura tanto presenti in Italia e teorizzati in quegli anni da Cirese. E per fare questo, l’aiuto di un regista duttile e sensibilissimo come Negrin (di cui il libro comprende le inedite note di regia) è indispensabile e decisivo. Alla base, costante, l’idea che ogni nuova tappa della ricerca andasse galileianamente comunicata, e nella maniera più efficace, perché fosse generalmente compresa e accettata.

Da un certo punto di vista, colpisce molto oggi rileggere quelle discussioni accanite sul rapporto tra il popolare (il folclorico degli studi demologici) e il pop (quello che allora si definiva folcloristico): oggi che l’una categoria ha integralmente fagocitato l’altra, spiazzando tutti, fin quelle tesi pasoliniane a cui a volte Leydi sembra riferirsi.

Per altro verso, indubbiamente, il fatto che nelle nostre società contemporanee l’oralità segni una predisposizione verso il futuro, piuttosto che il segno di un’autenticità radicata nel passato, ripropone, ribaltate, molte questioni: il rap, ad esempio, con le sue radici indiscutibilmente popolari e il suo successo inevitabilmente mediale, con la sua sostanziale intraducibilità in scrittura musicale e la centralità delle rime, fa sì che l’analisi dei suoi testi non possa avvenire che a partire dalla loro esecuzione, pena il perdere quell’indispensabile controtesto orale di cui parlava Fortini, sempre discretamente attento ai rapporti tra orale e scritto, nei suoi rilievi di quegli anni sul Canzoniere pasoliniano.

Ma è solo un esempio tra i tanti, dei numerosi stimoli che il testo di Ferraro innesca e che lo rendono prezioso.

Ad accompagnare il volume, che offre anche una bellissima serie d’immagini fotografiche scattate da Negrin in occasione dei rilievi e delle registrazioni effettuate da Carpitella e Leydi in vista dello spettacolo, un cd audio con le registrazioni originali dei brani e degli esecutori poi compresi nello spettacolo del 67 e un CdRom con la riduzione televisiva Rai.

Articolo Precedente

Agrigento, matrimoni nella Valle dei Templi? La proposta 5stelle va respinta

next
Articolo Successivo

Una teoria di ombre, un medioevo fantasy a metà fra il web e il Califfato

next