Luciano Violante ha scelto da che parte stare, senza se e senza ma. Nella querelle nata dal salvataggio assicurato dal Senato ad Augusto Minzolini, l’ex presidente della Camera si schiera al fianco dell’ex direttore del Tg1, condannato in Cassazione il 12 novembre 2015 per peculato. Ma la mancata applicazione della legge Severino decisa dall’aula di Palazzo Madama è anche lo spunto che l’ex magistrato ed esponente del Pd sceglie per allargare il discorso e puntare il dito contro la “concezione autoritaria della vita pubblica” che sta nascendo nel Paese.

L’occasioni è di quelle ufficiali, oltre che di alto livello per il peso specifico dei relatori e delle istituzioni coinvolte: il seminario organizzato dalla Scuola Superiore Sant’Anna, dalla Scuola Normale Superiore, dalla Camera dei Deputati, dal Senato, dal Parlamento Europeo e dalla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative regionali. “In Italia sta nascendo una società giudiziaria – ha detto Violante nel corso della lectio magistralis sul diritto parlamentare tenuta stamani a Pisa – ci deve preoccupare questa concezione autoritaria della vita pubblica”.

Prendendo poi ad esempio il caso dell’ex direttore del tg della prima rete della tv pubblica condannato per aver speso 65mila euro in un anno e mezzo con le carte di credito della Rai, l’ex presidente della Camera ha spiegato che “la legge Severino affida alle Camere la possibilità di deliberare ed è quindi sbagliato come è stato detto da alcuni giuristi che la scelta parlamentare è stata illegittima“. Per poi concludere sottolineando che “il codice penale è diventato la Magna Charta dell’etica pubblica: si tratta di un segno di autoritarismo sul quale penso valga la pena di riflettere”.

Il dibattito attraversa il fonte parlamentare, creando malumori specie nel Partito Democratico, dal 16 marzo, giorno in cui con 137 voti a favore, 94 contrari e 20 astenuti il Senato ha annullato il parere con cui la Giunta per le autorizzazioni il 18 luglio 2016 aveva votato la revoca del mandato parlamentare del senatore di Forza Italia sulla base della legge Severino (con l’apporto decisivo di 19 voti e 24 assenze del Pd). A fronteggiarsi sono da allora due scuole di pensiero: la prima – alla quale si è appena autoiscritto Violante – annovera coloro che ritengono che Palazzo Madama abbia preso la decisione giusta, entrando legittimamente nel merito della vicenda giudiziaria dell’esponente azzurro e sindacando la sentenza definitiva in forza della quale se ne sarebbe dovuta dichiarare la decadenza; la seconda ritiene invece che quello previsto dalla legge Severino sia un automatismo in base al quale il Parlamento si limita a verificare che esistano le condizioni formali per la decadenza.

In passato Violante si era espresso sul tema della decadenza, schierandosi a favore del ricorso alla Consulta nel caso di Silvio Berlusconi. Intervistato dal Corriere della Sera il 26 agosto 2013 (a tre mesi dal pronunciamento di Palazzo Madama avvenuto il 27 novembre), il “saggio” del Pd argomentava così la propria posizione garantista: “Berlusconi deve spiegare alla Giunta perché a suo avviso la legge Severino non si applica. E i membri della Giunta hanno il dovere di ascoltare e valutare la sua difesa”. Poi, se l’organo del Senato “ritenesse che ci fossero i presupposti, potrebbe sollevare l’eccezione davanti alla Corte. Ma questa – precisava – non sarebbe una dilazione: sarebbe l’applicazione della Costituzione”. E, a decadenza avvenuta, era tornato sull’argomento: “Un partito come il Pd che non è capace di garantire i diritti dei suoi avversari non è credibile – attaccava il 3 dicembre – Silvio Berlusconi aveva il diritto di difendersi davanti alla Giunta per le immunità del Senato”. Per poi precisare il giorno successivo di avere “espresso questa opinione non per sostenere le ragioni del senatore, ma a difesa del Pd perché un partito che non fosse in grado di garantire i diritti dei suoi avversari non sarebbe credibile”.

Al di là dell’applicazione della legge Severino, la critica di Violante assume carattere più generale quando l’ex presidente della Camera parla di “autoritarismo” affermando che “il codice penale è diventato la Magna Charta dell’etica pubblica“, in evidente riferimento alle inchieste della magistratura che negli ultimi anni hanno acceso un faro sulle condotte illecite di politici, vertici delle istituzioni e protagonisti della vita pubblica di ogni ordine e grado. Come se il problema fossero i magistrati che indagano e non gli esponenti della classe politica le cui condotte sono spesse volte tutt’altro che irreprensibili. E come se una migliore selezione della classe dirigente fosse un’esigenza che non riguarda i partiti.

Quello dell'”uso spregiudicato delle inchieste nella lotta politica” è un tema sul quale Violante batte da anni. Nel 2012, nel pieno della polemica sulla trattativa Stato-mafia e delle intercettazioni telefoniche, l’ex magistrato puntava il dito contro il “populismo giuridico” che “utilizza le procure” come “clava politica. E chi erano gli artefici dell’attacco? “Si tratta di un blocco che fa capo a Il Fatto, a Grillo e a Di Pietro – spiegava in un’intervista del 20 agosto a La Stampa – e sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano. Quello di Berlusconi attaccava le Procure – sosteneva Violante – questo cerca di avvalersene avendo individuato in quelle istituzioni i soggetti oggi capaci di abbattere il ‘nemico’, e di affermare un presunto nuovo ordine, che non si capisce cosa sia”.

Nelle stesse ore in cui Violante difende Minzolini, un altro magistrato esprime sul caso una valutazione opposta. “C’è da rimanere perplessi sulla decisione del Senato – ha detto a Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone – ccccccccccc.

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