Khalid Masood, il cinquantaduenne attentatore di Westminster, secondo la polizia londinese, avrebbe agito da solo: ad oggi non sarebbero emersi legami con i network del terrorismo. “Crediamo”, hanno precisato i responsabili delle indagini, “che Masood abbia agito da solo” poiché “non sembra abbia avuto complici”, e hanno aggiunto: “Le ragioni forse non le sapremo mai”. Se in sede giudiziaria, di fronte alla mancanza di prove sul movente dell’attentatore, si dovranno trarre le conseguenze dei dubbi degli investiganti, proprio questi dubbi inducono tuttavia a riflettere e ad interrogarsi sulle ragioni dell’ossessione che paralizza la personalità e la sua capacità di giudizio, atrofizza il senso della libertà e contrae la coscienza, alla radice del terrorismo islamico.

Una risposta su cosa possa spingere un moderno jihadista a massacrare inermi civili, può venire dalla stessa letteratura araba: negli ultimi quindici anni, il termine jihad ha finito per intessere il quotidiano della comunità internazionale e ha finito per diventare tema narrativo da esplorare per gli scrittori arabi e musulmani, che per primi hanno visto e subìto l’esplosione del fenomeno. Attraverso una varietà sorprendente di tecniche e stili narrativi, spazianti dai romanzi storici a quelli di ambientazione contemporanea, improntati al realismo sociale o al genere fantastico, questo movimento letterario spontaneo racconta la tematica del jihad e rappresenta la figura del jihadista moderno. E di entrambi restituisce un’immagine articolata, in contrasto con molte narrazioni politiche e giornalistiche, soprattutto occidentali ed europee: la scelta di morte del jihadista viene decostruita, contestata, criticata.

Il ricorso al martirio diventa motivo di scontri e di rotture affettive, che porta sempre all’emarginazione del singolo dall’ambito familiare. L’allucinante traiettoria del jihad viene sempre presentata, letteralmente, come un punto morto e mai di arrivo. Il fanatismo dei jihadisti, insomma, si configura più come una rivolta nichilista di una generazione abbandonata, che come l’espressione di una tensione naturale verso la morte, che sarebbe insita nella cultura araba o musulmana. Il terrorismo islamico è da imputare al nichilismo prima ancora che al fondamentalismo religioso: i terroristi non uccidono in nome del Dio in cui dicono di credere, ma in nome del Dio in cui non credono più, in nome del Dio di cui disperano. C’è una radice di assoluta disperazione nel terrorismo, e perciò il terrorismo ha a che fare con il nichilismo ben più che con la religione, infatti il nichilismo è un fenomeno di consumazione e di tramonto della fede religiosa.

Nulla di nuovo sotto il sole. Sintetizzando al massimo, dire che l’essenza del terrorismo è il nichilismo equivale a dire che è qualcosa che va al di là, che travalica una guerra di religione. Nasce, infatti, con una matrice atea e prosegue sulla stessa linea: dal Terrore di Robespierre, passando per quello degli anarchici russi di fine Ottocento, per arrivare al terrore rosso del Novecento. È Lev Trotsky, padre dell’Armata Rossa, nel 1918, a scrivere, in Terrorismo e comunismo, che il comunismo si costruisce “col ferro e col sangue”, ereditando la tradizione giacobina e quella dei Demoni di Dostoevskij.

Quando venne scritto questo romanzo, la società russa, come oggi la nostra società globale, era minata: il caos politico, il disordine amministrativo, la leggerezza delle classe dirigenti corrodevano ogni cosa. Le cloache della città stavano per spalancarsi. Il fanatismo macchiava le anime dei giovani più ingenui e più puri. Tutto era pronto a incendiarsi, come le tetre case di legno dei sobborghi artigiani e operai; e fra poco la volontà e l’incoscienza degli uomini avrebbero acceso una grande fiammata, dove sarebbero arsi insieme i giusti e gli ingiusti, gli innocenti e i colpevoli, i vivi e i morti. In quel momento per diffondere ovunque l’appassionante, terrificate e spietato spirito della distruzione, non c’era bisogno di un talento politico come Robespierre. Bastava Nečaev, che nei Demoni assunse il nome di Pëtr Stepànovi Verchovenskij, piccolo demone servile, Mefistofele da trivio, questo buffone da operetta, che conosceva soltanto il volto più meschino del male.

Freddo, lucido, terrificante e spietato demone, allucinato e irresistibile ammaliatore, il misterioso principe Nikolaj Stavrògin racchiude in sé quale emblematica figura simbolica, le radici di ogni male moderno. Maschera depravata, nel cui sguardo prorompe un “ribrezzo satanico” e le cui labbra sono deformate da un “maligno e obliquo sorriso”, si muove attorniato da un universo pullulante di personaggi “minori”, ai quali riserva indifferente rovina e distruzione. Le sue forze intellettuali sono inutilmente sospese su un vuoto metafisico: noia, incredulità, apatia, indifferenza. Il suo fallimento lo conduce al delirio dell’uccidere e il riconoscimento del crollo del suo destino umano trova appagamento solo nel suicidio che trascini anche altri con sé. Stavrògin è il ritratto di al Qaeda.

Il califfato è altro orrore: un pieno e non un vuoto. È Kirillov. Il pallido imitatore di Cristo, sorta di Pascal nutrito di Vangeli e geometria, urlante con gli occhi fissi in un punto lontanissimo dello spazio, prima di puntarsi la rivoltella contro la tempia. Kirillov come i miliziani di Is, vuole compiere un mostruoso omicidio collettivo per far trionfare la volontà di obbedire al pensiero di una divinità unica e totalitaria. E dietro di lui occhieggiano gli innumerevoli e piccoli demoni, bassi e abili cospiratori, idolatri e assassini.

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