Politicamente, una vita “nel gorgo”. Viene quasi naturale recuperare le parole del suo amico e mentore, Pietro Ingrao, per descrivere la carriera di Alfredo Reichlin. Un’esistenza spesa a coltivare il dubbio, senza mai accomodarsi sulle certezze calate dall’alto e tuttavia restando fedele, in ogni caso, al bene supremo dell’unità del partito. Fino a pochi giorni prima della sua morte, almeno. Fino, cioè, al 14 marzo scorso, quando su l’Unità è comparso un articolo a sua firma che ha colpito molti per la durezza con cui l’ex dirigente comunista attaccava il Pd renziano. Spiega Pietro Spataro, confidente e collega di Reichlin ai tempi della sua seconda direzione de l’Unità, alla fine degli anni Settanta: “Alfredo ci teneva, soprattutto, a precisare una cosa: lo stravolgimento del concetto di ‘partito della Nazione’. Lui quell’espressione l’aveva coniata pensando a una forza in grado di ascoltare i bisogni veri del popolo, al netto delle distinzioni di parte, non certo per inneggiare a inciuci e trasformismi”. Ecco, quell’articolo, scritto con grande fatica fisica, segna una prima volta nella storia di Reichlin. Succede anche a 91 anni. La prima volta, cioè, che in vita sua il “compagno Alfredo”, quello che mai volle allontanarsi dalla casa madre (Pci, Pds o Pd che fosse), ha guardato con un certo favore a chi aveva abbandonato il partito. I suoi familiari, del resto, oggi lo ricordano così: “Uno spirito critico, certo, e uno spirito inquieto, anche. Ma tenacemente convinto che le rotture fossero un errore, che fosse più utile spingere amici e compagni verso posizioni più coraggiose restandogli a fianco, anziché fondare nuovi soggetti che rischiavano l’irrilevanza”. Se stavolta era arrivato a esprimere – pur con qualche riserva – la sua solidarietà a Bersani e compagni, allora, “era forse perché il gorgo, il luogo dove costruire un rapporto più stretto col popolo, per lui ormai era altrove”.

Da “ingraiano” vero, insomma, sempre. Anche quando esserlo, “ingraiano”, non era affatto vantaggioso. Anche quando significava, per esempio, schierarsi apertamente contro Palmiro Togliatti, e subirne poi le inevitabili conseguenze. Aveva 37 anni, Reichlin, nel 1962, e da 7 era il direttore de l’Unità. Direttore scomodo, per il Migliore, perché mentre il Pci sosteneva la decisione di Mosca di mandare i carri armati a Budapest, l’Unità cominciava per la prima volta a raccontare le contraddizioni del socialismo reale nei Paesi dell’Est. Lo scontro più duro, però, arriva poco dopo. Quando, cioè, a Botteghe Oscure si decide di accogliere con un certo favore l’ipotesi del centrosinistra e Ingrao si oppone. Reichlin sta dalla parte del suo maestro e un pomeriggio di marzo del ’62 viene convocato da Togliatti. Poche, dirette parole: “Senti, io sono il segretario del partito, tu il direttore del giornale del partito. Mi sembra doveroso che tra queste figure ci sia accordo. Quindi le alternative sono due: o mi dimetto io, oppure ti dimetti tu”. Sembra perfino scherzoso, Togliatti. Ma è pur sempre Togliatti. E infatti la direzione de l’Unità passa a Mario Alicata e Reichlin viene spedito nella sua nativa Puglia, a fare il segretario regionale. Lui non protesta, conosce le regole. Solo a un’accusa, però, replica con durezza, perché più di altre lo offende. L’accusa è quella di essere “uno scissionista” e a scagliargliela è il suo compagno di partito Giancarlo Pajetta in una lettera privata. Reichlin prende carta e penna e replica punto su punto. “Scissionista”, a lui, proprio no.

Di saper resistere alla tentazione delle “fughe in avanti”, come si diceva negli anni turbolenti della contestazione, o “a sinistra”, secondo il lessico più contemporaneo, Reichlin lo dimostra qualche anno dopo. Nell’ottobre del 1969, per la precisione, quando il gruppo dei ribelli del Manifesto viene radiato dal Comitato centrale del Pci, e lui e Ingrao si ritrovano, ancora una volta, proprio sulla faglia. I più vicini, per visione e temperamento, al gruppo di Luigi Pintor e Rossana Rossanda e però comunque fedeli alla linea dettata da Enrico Berlinguer. Reichlin soffre più di altri quella divisione, nella quale, per lui, entrano in gioco anche affetti personali. Perché è vero che con Luciana Castellina, una delle animatrici dell’avventura del Manifesto, il matrimonio è già finito, ma è altrettanto vero che i rapporti tra loro restano – come poi resteranno anche in seguito – assidui e amichevoli. “Tenne sempre diviso l’aspetto sentimentale da quello politico”, afferma ora Lidia Menapace, altra redattrice di quel giornale dissidente. Achille Occhetto, all’epoca leader giovanile in forte ascesa, conferma. E aggiunge: “Fu un passaggio estremamente doloroso, per lui. Ma era proprio nelle fasi più delicate che Alfredo dava prova della sua lucidità”.

Affermazione non banale, se a farla è chi ha potuto toccare con mano il valore della fedeltà e della capacità di mediazione di Reichlin. Altro clima, altra epoca: non più le aspirazioni rivoluzionarie di un gruppo di intellettuali nell’autunno caldo del ’69, ma il sogno del comunismo che viene giù insieme al Muro di Berlino. La svolta, stavolta, è quella della Bolognina: siamo nel novembre del 1989, e Occhetto propone di superare il Pci e fondare “un’altra cosa”, che poi sarà il Pds. “La mia paura – racconta l’ex leader comunista – era soprattutto legata alla possibile reazione negativa dei padri nobili del partito”. Il più temuto di tutti, manco a dirlo, Pietro Ingrao. Che però al momento dell’annuncio della svolta è in Spagna per un ciclo di conferenze. “Erano giorni convulsi, caratterizzati da una tensione incredibile. L’ultima cosa che ci voleva erano dichiarazioni d’istinto di una personalità così combattiva come quella di Ingrao, che peraltro era stato messo al corrente della cosa solo in modo sommario”. E quindi, che fare? “Chiesi a Reichlin e Antonio Bassolino di andare a prendere Ingrao all’aeroporto e parlargli privatamente. Come sospettavo, Ingrao non la prese bene, ma ai giornalisti non disse nulla”. Reichlin invece sostiene la svolta, per la prima volta anticipa il suo maestro. E alla fine – ma solo dopo due congressi e parecchie lacrime – lo convincerà a seguirlo.

“Per la prima volta? No, non direi”. Chiara Ingrao sorride, quasi commossa, nel ricordare i pranzi nella casa romana dei suoi genitori, dalle parti di Piazza Bologna. “In più di un’occasione mio padre si è affidato ai consigli di Alfredo”. Ingrao, è cosa nota, amava circondarsi anche nel tempo libero dei suoi compagni di partito. “Ne nascevano grandi mangiate e, soprattutto, interminabili discussioni che io e mia sorella, ragazzine, ascoltavamo ammirate. Alfredo era così, sempre sorridente, sempre umile. Credo non fosse consapevole di quanta autorevolezza ispirasse la sua figura. Era un maestro per tanti, compreso mio padre, di cui continuava però a considerarsi un allievo”. Umile e autorevole, dunque.

Due aggettivi che tornano anche nelle parole del regista Citto Maselli, che Alfredo Reichlin lo ha conosciuto, per la prima volta, ai tempi del liceo. “Era il 1944. Frequentavamo entrambi il Tasso, a Roma. Lui era il capo del gruppo di resistenza degli studenti. Facevamo volantinaggio dentro e fuori dalla scuola, col fiato sul collo della banda Koch, la squadraccia di militari che nella Capitale collaborava coi nazisti”. Un carattere che non è cambiato, negli anni, a giudicare dalla testimonianza di Pietro Spataro. “Avevo 22 anni ed ero un lettore accanito de l’Unità”. Reichlin era tornato a dirigere il quotidiano nel 1977, dopo il successo di Rinascita. “Gli scrissi per posta spiegando che il mio sogno era di poter scrivere su quel giornale, ma mai mi sarei aspettato una risposta. E invece passarono solo pochi giorni e mi vidi recapitare una lettera intestata ‘Al compagno Pietro’. Mi presentai in redazione col mio striminzito curriculum e fui assunto”. Il modo di lavoro del direttore? “Sempre curioso del pensiero degli altri, ma con una grande capacità di fare squadra. Ricordo riunioni, al mattino, che duravano ore”.

Gli ultimi anni lo avevano visto indebolirsi molto. Era stato costretto, con grande dispiacere, a partecipare con più distacco alla vita del Partito democratico – di cui fu uno dei fondatori – e al dibattito sui giornali. Non aveva però rinunciato a schierarsi sul referendum costituzionale, scegliendo il No come “male minore” di fronte al rischio di compromettere il rapporto tra la politica e il popolo e snaturare il partito, riducendolo “a puro servizio del Capo”. Resta il suo giudizio piuttosto critico sulla “rottamazione”, “una scommessa che Renzi si era illuso di vincere con la straordinaria energia del renzismo (un uomo solo al comando, chi non sta con me è contro di me, lo svuotamento del partito dei sindacati degli organismi sociali intermedi)” e che invece è “fallita”. E resta, come ultimo appello, quello del 14 marzo scorso sulla sua Unità, quello in cui esortava a non cedere ad una “logica oligarchica” che rischiava di condannare la sinistra a “restare sotto le macerie”.  Ma forse, a futura memoria, resterà soprattutto il discorso che Reichlin tenne a Piazza Montecitorio, nell’ultimo saluto a Ingrao il 30 settembre del 2015. In quell’occasione, con gli occhi inumiditi dal pianto e una voce ancora forte, da oratore, Reichlin replicò all’accusa che in tanti, negli anni, hanno mosso ai Comunisti più radicali, agli “ingraiani”. “Non è vero che volevamo la luna. La nostra grande passione fu piuttosto quella di immergerci nell’Italia vera e di lottare per non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza inaudita del denaro”. Qualcosa che per Reichlin, giura chi lo ha conosciuto, “andava fatto restando coi piedi per terra”. Altro che luna.

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