A vederla dal ponte sul torrente Martorano, Sant’Agata de’ Goti, nella provincia di Benevento, sembra un prolungamento naturale della terrazza di tufo su cui è stata costruita, tanto che è impossibile distinguere il punto esatto dove finisce la natura e inizia l’opera dell’uomo.

Il costone di roccia all’ombra del Taburno che ospita questa mezzaluna di casette, chiese e viottoli è ancora integro dopo secoli di edificazioni da parte delle genti che lo hanno abitato – dai sanniti alla famiglia normanna dei Drengot, che diede il nome alla città. Passeggiando sul sentiero che costeggia il fiume, guadato in passato da belligeranti velieri e adesso ridotto a rigagnolo, se si alzano gli occhi al cielo si possono contare le ere geologiche di Sant’Agata. Le sue tante età si sono stratificate sul profilo imponente della montagna, come i cerchi concentrici nel tronco dell’albero; guardando i cunicoli scavati mille anni fa per penetrarla e ciò che resta di archi e scalinate si riesce a immaginare quanta storia si sia accumulata su questa imponente parete tufacea, oggi ricoperta da un esoscheletro di finestre e terrazzini da cui penzolano panni che svolazzano sullo strapiombo.

La cittadina di Sant’Agata si fregia di pochi ma preziosi traguardi. È bandiera arancione del Touring Club, riconoscimento di qualità turistico-ambientale aggiudicato grazie all’armonia del tessuto urbano e alla qualità dell’edilizia pubblica e privata. Dal 2012, fa anche parte del circuito dei borghi più belli d’Italia, che comprende oltre 250 piccoli comuni premiati per la loro bellezza artistica. Alcuni la chiamano la “perla del Sannio”, altri il “gioiello della Valle Caudina”, la stessa dove secoli fa si consumò una delle più ignominiose sconfitte dell’esercito romano, con i sanniti che umiliarono gli sconfitti facendoli passare sotto i gioghi, prima di sbeffeggiarli.

Sant’Agata non è però molto diversa dalle centinaia di borghi italiani che si confrontano ogni giorno con la frustrante condizione di non essere in grado di far scoprire appieno la propria “piccola bellezza” ai turisti, soprattutto quelli stranieri. Ma anche agli italiani: ho ancora davanti agli occhi l’espressione sgomenta di un collega milanese al cospetto di una tavola imbandita con fagioli, friarielli e parmigiana. Il disappunto non era per il cibo, ma per la mancanza di coda all’ingresso dell’agriturismo.

Come Brindisi, di cui ho scritto in questo post, anche Sant’Agata soffre di una “sindrome da passaggio”. I turisti che vengono in Campania sono diretti perlopiù a Napoli – che sta scoprendo il turismo esperienziale e raccogliendo i benefici della destagionalizzazione, che aumenteranno ancora grazie alle nuove rotte annunciate da Ryanair – e Caserta. La Felicoreggia, distante appena 20 chilometri dalle porte del beneventano, sta attirando nel suo reame un numero sempre crescente di visitatori, grazie alla restaurazione avviata dal suo arrembante e iper-social direttore. Ironia della sorte, a due passi da Sant’Agata sono stati costruiti quasi due secoli fa gli scenografici ponti Vanvitelliani dell’acquedotto Carolino, dove scorre l’acqua che innaffia i giardini borbonici.

Per vincere la sfida del turismo mordi e fuggi e l’apatia dei palinsesti estivi imbottiti di sagre, i cui benefici si esauriscono nell’arco di un sabato sera, Sant’Agata deve puntare sui suoi veri punti di forza. Un territorio di 62 chilometri quadrati ricco di agriturismi e locande a conduzione familiare, che ogni fine settimana sono in grado di accogliere 12mila turisti. Affascinanti percorsi di enoturismo – nelle Cantine Mustilli è stata imbottigliata la prima bottiglia di Falanghina, senza dimenticare che il Sannio produce il 45% di tutto il vino della Campania – e di cineturismo: Sant’Agata è stata set cinematografico di film come

Il resto di niente, ispirato all’omonimo romanzo di Enzo Striano

La mia generazione con Silvio Orlando, Claudio Amendola e Stefano Accorsi

Si accettano miracoli di Alessandro Siani

Ci sono poi i tour delle tante chiese cittadine, per chi ama l’architettura religiosa, le passeggiate su stradine fiancheggiate da aranceti baciati dal sole, e la scoperta dell’incredibile storia del vaso dipinto da Assteas raffigurante il Ratto di Europa, trafugato da Sant’Agata e oggi esposto al Louvre. Ultimo ma non ultimo il cibo della migliore tradizione locale, condito con la debordante accoglienza campana.

Il beneventano pullula di borghi belli e accoglienti, ma difficili da scovare e raggiungere, anche per il turista automunito. Un po’ alla volta, la sharing economy e il turismo 2.0 stanno però sparigliando le carte. Dove non ci sono voli charter, arrivano i bus low cost; quando gli alberghi sono troppo cari o hanno siti che ricordano gli albori di Internet, i turisti alloggiano nelle case private prenotate su Airbnb; dove prima c’erano amministratori, oggi si sono manager multitasking della cultura. Sotto la gestione di Mauro Felicori, la Reggia è diventata un catalizzatore di energie positive, e un punto di riferimento per lo sviluppo di sinergie territoriali, non solo con la provincia di Caserta.
Sant’Agata di cose belle da condividere ne ha. Che ne dice, Direttore?

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