Uno degli ultimi spauracchi da appiccicare ai figli a garanzia delle buone maniere è quello contro la sconveniente parolaccia, più contagiosa di una verruca, più imbarazzante di un brufolo. Fate mente locale e troverete che almeno una volta (ma saranno molte di più), nella vostra vita da genitori, avrete visto qualcuno redarguire il proprio o quello di un altro dopo averlo sentito dire una delle innominabili trivialità.

Perché il “non si dice” è ancora uno di quei comandamenti che ci si sente chiamati a rispettare. Strano, perché la bocca di tutti è diventata lo sciaquone dal quale fuoriescono frasi e parole che qualche decennio fa non solo erano proibite in televisione ma quasi in pubblico.

In tutta onestà una parolaccia sfuggita più o meno consapevolmente dalla bocca di un bambino o un ragazzino non mi crea particolari scompensi e non fingo pudore quando la sento pronunciare. Non tutti ovviamente hanno la stessa percezione: conoscevo una coppia che ai figli faceva pagare pegno ogni volta scappava loro una delle parole bandite dalla casa e anche gli ospiti – se colti in fallo in presenza dei bambini – dovevano fare ammenda e riempire il fondo cassa.

Chissà poi da chi le imparano queste parole i bambini. Perché in fondo, nella prima infanzia, le parolacce sono un po’ come quelle confidenze che i figli sentono in casa e non trattengono, sono la testimonianza dell’esperienza domestica e mostrarla in pubblico equivale anche a svelarne la fonte.

Fa tutto parte di un bon ton catto-borghese di cui non sono grande amante. Certo, l’abuso dello sproloquio è fuori controllo – anche se in primis sono gli adulti che lo veicolano senza freni – ma a volte si tende ad accettare espressioni che benché non rientrino nella categoria delle volgarità, risultano più feroci e malevoli, tanto più perché dette con la malizia di cui la parolaccia spesso non si veste. Ci sono parole socialmente più tollerate, che definiscono caratteristiche fisiche dei bambini, come “ciccione”, “scemo”, “brutta” o “spilungona” che trascinano con sé malignità e cattiveria.

Ci sono genitori che soprassiedono volentieri a una carognata fatta dal proprio figlio e che richiede più coinvolgimento da parte loro, e poi si ergono a paladini del bel parlare perché “non sta bene” e chissà cosa dirà la gente. Ed ecco che la bestemmia, in un Paese dove tantissima gente ne fa uso, può valere una condanna per direttissima con tanto di pippone educativo, mentre tutto il resto – insulti, diffamazioni e cattivo gusto – è consentito, tollerato, quasi premiato.

Siamo nell’epoca in cui vendersi, e di riflesso vendere il proprio figlio, ripulendosi di quell’alone di rozzezza, impurità, imperfezione, è più importante dei contenuti; i sentimenti cedono il passo alle belle maniere – anche se di facciata – o a una bella confezione. Se poi al proprio interno ci si nutre di quel che si vuole occultare poco importa, purché sia la superficie a prevalere. E’ anche più facile, come genitore, lavorare affinché il proprio figlio appaia impeccabile; più difficile è plasmarne l’anima insegnandogli a essere una bella persona.

E’ una questione di prospettiva e di scegliere ognuno le proprie battaglie. Se il mondo degli adulti è popolato da gabinetti che ruttano anziché parlare, di che ci stupiamo se i nostri figli fanno lo stesso? Al di là di come uno la pensi, devono anch’essi imparare a muoversi nella società in cui vivono, assimilarne le regole e i codici lingustici, per poi utilizzarli a proprio vantaggio nelle diverse occasioni. E poi, diciamoci la verità, un bel “cazzo” al momento giusto non ha mai fatto male a nessuno.

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