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Sei anni, oggi.
E sono ancora qui.
Ancora in Turchia, al confine. Ancora che mi preparo a rientrare. Ma non c’è più nessuno, solo pioggia e mendicanti. Questi bambini, per strada, che ti si aggrappano addosso.
Nient’altro.
E’ rimasta solo la guerra.

In un certo senso, non ci sono più neppure i siriani. E non solo perché molti sono morti, ormai, o in Europa: ma perché nessuno, qui, parla più di Siria. A sei anni dalle prime manifestazioni, ancora l’opposizione ad Assad non ha una struttura, un’organizzazione. Una strategia. Ha solo armi. Gli attivisti più carismatici sono stati tutti uccisi. Uno a uno. Quelli ancora vivi si occupano di aiuti umanitari. Di farina, acqua. Gasolio. Niente di più. Ma non per questo si arrendono: di là dal fronte, in fondo, non ci sono che signori della guerra.
Esattamente come qui.
Neppure Assad ha un’idea di Siria. Solo un’idea di potere.
Quante volte ho guardato Aleppo da qui. Da questo stesso punto. Le esplosioni, il fumo. Ora tutto tace. Ora è tutto buio, tutto nero. Non c’è una luce: è tutto morto.

Questa è la Siria, sei anni dopo: un paese in cui un bombardamento è un segno di vita.

Era una sera di pioggia identica a questa, una sera di vento e pioggia, la sera che sono arrivata qui per la prima volta. Convinta, come molti altri giornalisti, che sarebbe stata questione di un paio di mesi. Come in Libia. Come in Egitto. Poi, un po’ alla volta, sono andati via tutti. Alcuni sono morti, oggi. Alcuni alcolisti. Nessuno, tra di noi, ha mai più parlato di quei giorni.

Spesso non ci siamo mai più neppure parlati.

Ed è rimasto solo questo silenzio, adesso. Questo senso di vita ferma. Di vita inceppata, mentre quella degli altri, intorno, continua. Cambia solo il numero dei libri che hai scritto, delle lingue in cui sei stato tradotto: perché giri, giri: ma poi torni. Torni qui, sempre. E le città hanno ogni volta nuovi negozi, nuovi caffè, dove c’era uno slargo incolto ora c’è una casa con il cancello in ferro battuto, all’ingresso un bambino che gioca, e ti fissa, un momento: ma tu sei ancora qui, in questo stesso punto, sei anni dopo, e tutto è ancora uguale. Ancora piove.

Solo che non c’è più nessuno.
Non c’è più neppure Aleppo.
Persino i siriani non capiscono più perché sei qui. Che senso ha. Anche se questa tregua, non è un segreto, non è una tregua, e prima o poi, semplicemente, sarà il turno di Idlib, l’ultimo bastione dei ribelli: e sarà una nuova Aleppo. Ma ormai hanno imparato che non fai nessuna differenza. Se ci sei o non ci sei, se il mondo sa o non sa: non cambia niente. Sei anni e 500mila morti dopo, gli unici che mi chiedono della Siria sono gli imprenditori: mi chiedono quando saranno stanziati i primi finanziamenti per la ricostruzione.

Ma probabilmente non risponderei comunque. Se anche qualcuno mi cercasse: perché non saprei cosa dire. Perché non ricordo più com’è il mondo, com’è la vita oltre questo.

Aspetto Idlib. Aspetto Raqqa. Aspetto la prossima battaglia, come tutti: perché la battaglia è il momento migliore. Il momento in cui sembra succedere qualcosa. Uno avanza, uno arretra. Il momento in cui tutto questo sembra avere una direzione. Il fronte è il momento migliore perché ti distrae dalla verità: la verità che poi tornerai qui. Ancora.

Sempre.

Tra queste macerie che a osservarle meglio, non sono solo macerie. Sono anche uomini, vite. In pezzi come tutto il resto. Queste macerie che a osservarle meglio, siamo noi.

Raccontare una rivoluzione è facile. Anche se diventa una guerra, anche se diventa pericolosa: ma è facile, perché ti senti testimone di una battaglia per la libertà. Di un movimento della storia. Qui invece c’è solo la risacca della storia: solo la schiuma della terra. Solo battaglie in cui nessuno sa più chi è che combatte, e perché. Eppure c’è più guerra qui, più guerra in questo, che a Mosul. Perché di tutto quello che ho studiato all’università, non era vero niente, in guerra non c’è alcuna distinzione tra i civili e i combattenti, e non ci sono regole, armi vietate, non c’è l’Onu, i caschi blu, i pacifisti, non c’è niente e nessuno, in guerra, si spara e basta: ma soprattutto, non c’è alcuna distinzione tra la sconfitta e la vittoria. Racconterò la battaglia di Raqqa, adesso: e l’unica cosa che cambierà, è che al più sarò tradotta in una ventitreesima lingua.

Ma poi sarò di nuovo qui. Ancora.
In questo stesso punto, sotto questa stessa pioggia.
Ad aspettare un bombardamento. Dei morti. Un segno di vita.

Foto di Yuri Kozyrev scattata a Homs il 13 maggio 2014
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