Che pasticcio, come altro definire la rivolta “etnica” scoppiata nel fine settimana passato tra turchi, olandesi e turco-olandesi? Sembra una storia di altri tempi eppure con il ritorno in auge del nazionalismo, dovremo abituarci a crisi come questa. Rispetto ad altre comunità, però, quella turca ha elementi che la contraddistinguono da tutte le altre: il nazionalismo, il fortissimo legame con la madre patria, la cultura “di mezzo” al confine tra levantino e occidentale. E poi uno Stato forte, asfissiante: la Turchia non ti lascia. Anche se era casa dei nonni ma non dei genitori. E certamente non delle terze generazioni.

Difficile riflettere sulla crisi turco-olandese senza questa premessa. E difficile comprendere il perché sia scoppiata proprio in Olanda senza conoscere un po’ la travagliata storia dei rapporti tra Nederturks (olandesi di origine turca) e Turchia. E tra i primi e i Paesi Bassi.

Ma andiamo con ordine: intanto perché il sultano ha scelto proprio i Paesi Bassi per lanciare il suo affondo e non la Germania? La risposta è semplice: turco-olandesi e turchi di prima generazione, con ancora in tasca il passaporto della mezza luna, sono quasi mezzo milione, concentrati – soprattutto – tra Amsterdam, Rotterdam e L’Aja e lo Zaanstad, una regione ad ovest di Amsterdam. Se si considera che i 2,5/3 milioni di turchi in Germania sono distribuiti su un Paese di 90 milioni di abitanti mentre l’Olanda arriva a malapena a 17, si capisce quanto influente sia la comunità nei Paesi Bassi.

Influente, ben organizzata, conservatrice (7 su 10, alle elezioni turche del 2015 hanno votato per l’APK di Erdogan) e molto radicata. Il Parlamento olandese e i consigli comunali sono pieni di rappresentanti di origine turca e i parlamentari olandesi ex laburisti Ozturk e Kuzu, hanno addirittura fondato il partito multietnico Denk: multietnico ma molto “turco”.

Si capisce, quindi, perché i Paesi Bassi siano una roccaforte “decentralizzata” per Ankara, quasi più tattica della Germania. Considerando, poi, il peso ridotto sullo scacchiere mondiale di Amsterdam rispetto al paese della Cancelliera e la responsabilità diretta di Mark Rutte e del suo esecutivo nell’accordo con Ankara con i rifugiati, il quadro appare molto chiaro: fu proprio Rutte, durante la presidenza di turno olandese dello scorso anno a siglare il vergognoso accordo. I due, insomma, sono vecchie conoscenze a parte l’attrito delle ultime ore e la propaganda anti-turca di Wilders e dello stesso Rutte.

Il premier, poi, manda avanti il suo ministro della Giustizia Klaas Dijkhoff a difendere il “capolavoro” che avrebbe ridotto quasi a zero l’afflusso di rifugiati nei Paesi Bassi, senza ricordare al grande pubblico – però – che l’oasi di prosperità olandese è salva grazie ai soldi promessi ad Erdogan e all’impegno di offrire la libera circolazione Ue ai turchi.

In questa storia, quindi, c’entrano opportunismo, cinismo e conti in sospeso. La disputa sull’ospite gradito o meno, sulla prova di forza di Ankara e sugli scontri di Rotterdam nasconde quindi un regolamento di conti: tutto il resto, cade quasi in secondo piano. Il “sultano” è venuto a presentare il conto proprio alla vigilia del voto olandese e a ricordare che pacta sunt servanda, quantomeno quelli politici, visto che l’Aja – nonostante i tribunali e la corte di giustizia ICJ – fatica non poco ad onorare quelli diplomatici.

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