A prima vista spaventa: si tratta di un volume di 1500 pagine. Il mio consiglio però è quello di fare un piccolo sforzo, anche fisico (il tomo è pesante in modalità classico da scuola gentiliana) e di buttarsi nella lettura. Red Riding Quartet, dello scrittore inglese David Peace (pubblicato in Italia da Il Saggiatore, traduzione di Giuliana Zeuli e Marco Pensante) è un allucinato, poetico ed estremo capolavoro contemporaneo.

Si tratta in realtà di quattro romanzi, scritti tra il 1999 al 2002: 1974, 1977, 1980, 1983, che raccontano, attraverso svariati punti di vista, gli efferati delitti dello Squartatore dello Yorkshire. Basandosi su fatti realmente accaduti, l’autore affonda la penna in una nazione violenta e corrotta, in una Gran Bretagna, segnata da corruzione, tensioni sociali e intolleranza.

Dal periodo del disfacimento post-beatlesiano, passando per le provocazioni del punk fino ad arrivare al requiem dei sindacati interpretato da Margaret Thatcher e dal Partito Conservatore, Peace mette in scena una tetralogia rivoluzionaria, in cui il romanzo noir diventa lo strumento privilegiato per raccontare lo spaccato sociale di un Paese e i suoi luoghi più decadenti: “Mi tolsi i pantaloni e la camicia. Li appallottolai in un fagotto e li scagliai dall’altra parte della stanza, contro quel Ludwing Beethoven del cazzo. Poi mi rimisi a sedere, in mutande e maglietta bianche, troppo vigliacco per combattere per la mia storia. Troppo vigliacco anche solo per provarci. Ero un vigliacco del cazzo. Non mi accorsi che era entrata mia madre”.

È una scrittura attenta alle sfumature climatiche, urbane e umane dello Yorkshire. Una scrittura che sembra ispirarsi ai quadri allucinati di Francis Bacon, ai deliri di James Ellroy, con un ritmo narrativo estremo, lirico e distorto. La sua è una letteratura psichedelica dell’orrore, che seziona una profonda Inghilterra buia, industriale e piovosa dove gli esseri umani non ridono mai, vagano perduti, sprofondati in un nichilismo senza possibilità di rivalse o corrono andrenalinici verso soluzioni di comodo, stravolti da incubi e ricordi devastanti. Le parole sono utilizzate in modo ossessivo, le ripetizioni sono esasperate, i dialoghi sono tratteggiati in modo secco, sincopato.

È un tomo che puzza di moquette, umidità, feci e pudding: “Cos’è questo spunzone che s’intromette, e chi l’ha messo lì? Sarà per ordine della Regina, per impalarci un’orda di ladri del Commonwealth, uno dopo l’altro. È così, perché i cembali risuonano e passa la Regina che va a palazzo in lunga processione. Diecimila spade scintillano al sole, e tre volte diecimila fanciulle danzano e spargono fiori. Seguite da elefanti bianchi bardati di bianco, rosso e blu, una moltitudine infinita, con infiniti scudieri. Eppure la ciminiera si leva sullo sfondo, dove non è possibile che sia, e ancora nessun corpo si contorce sull’orrido spunzone”.

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