Questa bella storia di cinema del reale inizia con la ricerca dell’antropologa culturale Maria Antonietta Mariani: confrontare le vicende di donne provenienti da diversi continenti e riuscite a realizzare il proprio sogno in Italia diventando imprenditrici. Ambizioni sbocciate in gallerie d’arte, ristoranti, associazioni culturali, barche da pesca, laboratori di conserve. Sihem, Radi, Sonia, Ana e Ljuba sono soltanto cinque delle signore seguite da questo studio patrocinato dalla Provincia di Roma, ma grazie all’intervento della regista Elisa Amoruso le loro testimonianze sono confluite in un film che arriva al cinema proprio l’8 marzo, Festa della Donna.

Le Strane straniere sono cinque. Sonia Zhou è la titolare di uno dei ristoranti cinesi più conosciuti di Roma. Vitalità e autoironia indomate anche di fronte alle asprezze di una crisi matrimoniale per questa donna dalla parlantina sciolta. Però non c’è tempo da perdere quando sta per arrivare il capodanno cinese. Ana Laznibat è croata, Ljuba Jovicevic serba. A dispetto della guerra scoppiata nel 1991 tra i loro popoli, si sono incontrate in Italia e in vent’anni di amicizia hanno aperto una galleria d’arte a Roma. Radoslava Petrova viene dalla Bulgaria. Un matrimonio finito e la vita in barca da pescatrice nel Tirreno che bagna Carrara l’hanno portata ad aprire una piccola attività conserviera bio a base di pesce pescato. E infine Sihem Zrelli, tunisina nell’Agro Pontino che con il compagno italiano non si occupa soltanto di allevamento di animali. Hanno dato vita anche a un’associazione per il sostegno di famiglie in difficoltà. Un tassello di mondo arabo ad Aprilia che aiuta indifferentemente stranieri e italiani.

Suona quasi strano parlare per una volta d’integrazione (reale) e non d’accoglienza (fittizia). Strane straniere lo fa. Il piccolo documentario di Luce-Cinecittà – piccolo perché non è uno di quei film che verranno distribuiti in una valanga di sale – parla proprio di donne inserite nel tessuto sociale italiano. E lo fa con garbo e sensibilità intelligenti. Lo sguardo della regista prende il volo dal format documentaristico come le lanterne rosse del capodanno cinese fluttuano tra i palazzi di Roma. Ci porta al fianco delle protagoniste nella loro vita quotidiana, sul mare o tra esposizioni artistiche, ma anche nei loro ricordi attraverso voci e immagini molto private. Sono elementi palpabili l’arrivo in Italia, i travagli precedenti la stabilità, la percezione del nostro paese impregnata di quella speranza che forse oggi manca a molti di noi che giochiamo in casa.

Non si tratta il classico doc dove si alternano immagini di repertorio o girate ad hoc in mini set intervallate da testimonianze organizzate in monologhi verso l’obiettivo, ma balza in avanti mettendo la tecnica di ripresa al servizio di una ricerca della verità emozionale. “Siamo arrivati ad un momento in cui ha senso anche interrogarsi sulla dignità estetica del documentario, che è appunto un film autonomo”. La scelta estetica della Amoruso è diventata contenuto, come ha spiegato lei stessa alla presentazione stampa del film. “Ho pensato che spiare queste donne nella loro vita reale potesse essere anche una cifra linguistica, di energia e fotografia. In tutte le storie ricorrono momenti in cui appaiono attraverso una vetrata o una tenda perché loro vivono le loro vite reali. E io che sono la regista, l’attrice del documentario, vado a spiarle nelle loro vite”. Con questa tecnica è riuscita a formalizzare uno sguardo non intrusivo ma pertinente, dalla cifra stilistica sino ai contenuti, ottenendo un doc che si gusta più con la partecipazione emotiva di un film di finzione. “Il tentativo era quello di seguirle di più nelle loro vite quotidiane e raccontare le loro storie in modo più intimo, non con l’intervista frontale ma attraverso delle voci pensiero che potessero dar corpo più a un sentimento che a un’informazione”. Guardando un po’ più da lontano si potrebbe notare quanto certo cinema si sia nutrito in maniera nobile delle buone idee tecniche provenienti dal linguaggio reality, ma anche come quest’ultimo si sia deformato unicamente in funzione di ascolti e raccolte pubblicitarie. Questa però è un’altra storia, per giunta brutta, di uno schermo più piccolo.

In maniera intensiva, mass media e politica ci e si parlano di accoglienza censurando quasi completamente concetti e percorsi d’integrazione. Quella di Strane straniere è un’esperienza cinematografica che apre gli occhi perché alza proprio quel velo mostrandoci come una storia difficile può diventare lieta in un altro paese, il nostro.

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