Centri antiviolenza verso la chiusura e risorse sempre più risicate che ne compromettono l’attività, una legge che punisce il femminicidio dopo che è stato compiuto il reato, ma che risulta inefficace per la prevenzione e la protezione delle donne. Così la lotta contro violenza di genere in Italia assomiglia sempre più a una battaglia contro i mulini a vento. Lo dimostra la condanna della Corte Europea dei diritti umani sul caso di Elisaveta Talpis, la donna scampata nel 2013 al massacro del marito, che dopo aver tentato di uccidere lei freddò il loro figlio 19enne. L’Italia sarebbe rea, secondo Strasburgo, di aver violato la Convenzione dei diritti umani per il mancato tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria dopo la denuncia della donna contro l’uomo. Una circostanza che purtroppo non rappresenta un caso unico. “In Italia c’è una legge sul femminicidio che punisce chi commette un reato contro le donne, ma sulla loro protezione e quindi sulla prevenzione del fenomeno si fa ancora troppo poco” spiega a ilfattoquotidiano.it Carla Quinto, avvocato responsabile dell’ufficio legale della cooperativa sociale Be Free, che si occupa di tratta e violenza sulle donne. “Purtroppo in Italia presentare una denuncia per violenza non implica l’obbligo di intervento con una misura cautelare come per esempio il divieto di avvicinamento, che rimane a discrezione dell’autorità giudiziaria. – chiarisce l’avvocato – Il problema è che spesso viene sottostimato il pericolo per l’incolumità della donna e dei suoi famigliari, e non viene richiesta o concessa la misura cautelare nei confronti di chi invece rappresenta a tutti gli effetti una minaccia”. Eppure i modi ci sarebbero: con le misure cautelari, a seconda della gravità delle situazioni, si possono richiedere l’allontanamento di casa del famigliare autore del reato, il divieto di avvicinamento e nei casi più rischiosi si può ricorrere agli arresti domiciliari. Le misure cautelari però non scattano automaticamente con la denuncia, nemmeno se sono richieste esplicitamente. Per questo molte volte il finale di storie di soprusi e maltrattamenti finisce in tragedia.

Legge sul femminicidio: i limiti e la non applicazione della Convenzione di Istanbul
Uno dei problemi principali è che la legge 119 sul femminicidio del 2013 per molti ha ancora tanti limiti. Nel 2014 l’Italia ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti di donne e la violenza domestica, che si fonda sui concetti di prevenzione, protezione, punizione e risarcimento per le donne vittime di violenza. “La legge sul femminicidio in Italia dovrebbe ratificare la Convenzione – spiega l’avvocato Quinto – ma nei fatti prevede solo interventi a posteriori, mentre presenta carenze soprattutto dal punto di vista della protezione”. In Italia insomma, si corre ai ripari solo dopo che è successo il peggio, mentre il sistema dovrebbe provvedere a una serie di iniziative che riducano il rischio che questi fatti avvengano. “A che punto è lo stato di attuazione della Convenzione di Istanbul, ratificata dal nostro governo nel 2014? – accusa Loredana Taddei, responsabile delle Politiche di genere Cgil – Aspettiamo da anni che venga applicata per combattere efficacemente, con azioni integrate, la violenza contro le donne. Le leggi ci sono – continua Taddei – ma sono solo in parte attuate e con troppa lentezza, lasciando da sole le donne, e questa è una delle ragioni per cui spesso non denunciano”.

Centri antiviolenza e case rifugio verso la chiusura, risorse insufficienti
Una legge che dà poche certezze e con tempi troppo lunghi, oltre alla poca sicurezza di riuscire a risolvere il problema, spesso scoraggia le donne a denunciare e ritrovare la loro indipendenza voltando le spalle a una situazione pericolosa. Senza contare che, se le misure cautelari nei confronti dei loro carnefici non vengono applicate, nella maggior parte dei casi sono le donne vittime di violenza a dover abbandonare la propria abitazione insieme ai figli, stravolgendo la loro vita. È successo anche a Elisaveta Talpis, che si era rifugiata in una casa protetta per sfuggire al marito, anche se poi era dovuta tornare a casa dopo tre mesi perché non c’erano più soldi per la sua accoglienza. E qui si apre un altro problema che rappresenta un’ulteriore piaga per l’Italia. Perché i centri antiviolenza e le case rifugio sono troppo pochi numericamente e hanno scarse risorse a disposizione. Senza contare che c’è perfino incertezza nelle procedure di assegnazione dei finanziamenti previsti dalla legge 119. “Anche nel 2016 ci sono stati 116 casi di femminicidio – denuncia Taddei di Cgil – e ancora oggi sono poche le case rifugio che possono accogliere le donne e i loro figli”.
Pochi posti letto rispetto al numero delle vittime, pochi soldi a disposizione, attività portate avanti perlopiù dai volontari, tanto che molte strutture sono costrette a chiudere i battenti. “I centri sono poco più di cento in tutta Italia, ma negli ultimi sei mesi uno su quattro si avvia alla chiusura” elenca l’avvocato Quinto. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne, spiega, prevede uno standard minimo di un posto in un centro antiviolenza ogni 10mila abitanti. Il che significherebbe, solo per Roma con i suoi 4 milioni di abitanti, almeno 400 posti nei centri antiviolenza. “Invece – aggiunge – ce ne sono circa 40 e la media di Roma è in linea con quella nazionale”. I posti attualmente sono in tutto 500 a fronte dei 5mila previsti dalla Convenzione: “Significa che l’Italia copre soltanto un decimo del fabbisogno dello standard minimo previsto dall’Europa”.

La Rete “Non una di meno”
E’ anche il problema dei centri antiviolenza, insieme a quello della prevenzione e protezione delle donne contro la violenza di genere, uno dei temi per cui si batterà la Rete “Non una di meno”, a cui ha aderito il mondo dei sindacati, dell’associazionismo femminile e dei collettivi di donne. Per l’8 marzo, in occasione della giornata internazionale delle donne, è indetto uno sciopero generale contro la violenza di genere in tutte le sue forme. Ma sarà solo una tappa della grande mobilitazione che punta a riscrivere “dal basso” il piano antiviolenza in scadenza in Italia. “Il Governo si è già riunito per farlo – spiega Carla Quinto, che con la cooperativa Be Free fa parte della Rete – ma noi vogliamo affrontare la violenza di genere su tutti gli aspetti della società”. Tra i progetti, c’è quello di un tavolo giuridico che dia finalmente applicazione alla Convenzione di Istanbul, uno sul lavoro e sulla formazione, per prevenire anche la precarizzazione delle donne, la violenza e il mobbing sul lavoro. Insomma, un disegno a tutto campo, per sensibilizzare i cittadini e soprattutto lo Stato a fare di più per proteggere le donne dalla violenza.

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