Lavoratori “spremuti come limoni”, che non possono comunicare con l’esterno e dopo anni di usura causata da compiti meccanici, ripetuti per ore, vengono incentivati all’esodo a cifre irrisorie. E’ la sintesi della situazione dei dipendenti Amazon, secondo il racconto dei diretti interessati che lavorano nello stabilimento di Castel San Giovanni (Piacenza). Raro poterli guardare negli occhi mentre lo raccontano, grazie ai sindacati Cgil, Cisl, Uil e Ugl, che da pochi mesi sono riusciti ad avere rappresentanza all’interno dei magazzini del colosso statunitense guidato da Jeff Bezos.

Toni pacati per i lavoratori che hanno deciso di diventare Rsa, cioè rappresentanti sindacali aziendali, che hanno tenuto un incontro con la stampa nel Centro culturale del Comune per rendere noti i passi avanti nel dialogo intrapreso con la multinazionale della distribuzione. Anche se certamente il panorama descritto è tutt’altro che edificante.

Cesare, uno dei più “anziani” (assunto da 5 anni), ha spiegato che il problema maggiore riguarda gli infortuni e il loro riconoscimento: “Circa il 70-80% dei lavoratori ha problemi alla schiena, al collo e agli arti a causa di infiammazioni dovute alla postura. Stiamo 5-6 mesi senza cambiare mansione, nonostante l’azienda dichiari che ogni due giorni, su cinque lavorativi, viene cambiato il settore. Non è mai successo”. Lo conferma anche Filippo, altro giovane-vecchio di Amazon: “Alcuni infortuni vengono valutati come normali, non rientrano negli ‘infortuni correlati’ al lavoro e quindi vengono conteggiati come ferie. Ma i ritmi sono incessanti. Non abbiamo pause caffè e tutto è controllato dai badge: se diminuisce la produttività vieni richiamato e in seguito demansionato. Abbiamo solo una pausa pranzo di mezz’ora, 30 minuti che diventano 20 con gli spostamenti. Persino andare in bagno è sorvegliatissimo: ho avuto richiami per esserci andato una volta in più o sono stato accompagnato alla toilette dal manager di turno”.

Beatrice, che è addetta al primo soccorso nei magazzini, aggiunge un aspetto inquietante: “Mi è successo di soccorrere lavoratori con difficoltà a livello fisico e di scrivere, nel modulo da presentare all’azienda, ‘infortunio correlato’ all’attività svolta. Ma quando è arrivato al responsabile me lo ha contestato. E quindi le persone hanno paura a dichiarare disturbi legati alla produzione”. Un quadro parossistico, inquadrato a livello generale da Frank, origini ivoriane: “Amazon pensa di essere un consolato americano e di portare certe regole in Italia senza rispettare quelle vigenti nel nostro paese”.

Per questo alcuni dipendenti hanno deciso di avviare il percorso sindacale. Fiorenzo Molinari della Cgil ha chiarito: “Nell’azienda più moderna al mondo c’è la stessa alienazione delle industrie negli anni ’70. E’ bizzarro che una realtà in grado di coccolare con amore il cliente non tenga in considerazione salute e professionalità dei dipendenti”. Nel dettaglio è entrata Francesca Bendetti della Cisl: “Amazon non fornisce i dati sugli infortuni, a volte segnati come ‘malanno di stagione’ e trasformati in ferie. Ma ciò comporta la difficoltà da parte dell’Inail di riconoscere le malattie professionali. Abbiamo presentato, primi nel mondo, una piattaforma per arrivare alla stipula del contratto di secondo livello, oltre a quello nazionale del commercio, che prevede tempi di pausa più umani, produttività remunerata e una serie di azioni per la salute e la sicurezza dei lavoratori”.

Comunque un primo segnale, hanno ribadito i rappresentanti sindacali, vista l’estrema chiusura che Amazon aveva dimostrato finora. Ed è arrivato un significativo risultato: “Dopo aver svolto le assemblee, ai lavoratori impiegati da più di 18 mesi è stato riconosciuto il passaggio da ‘quarto’ a ‘quinto livello’. Lo prevede il contratto collettivo nazionale” ha dichiarato Pino De Rosa della Ugl. Uno sblocco, per il quale è stata fondamentale la determinazione dei dipendenti, ha sottolineato Vincenzo Gierriero della Uil: “Hanno messo a repentaglio i propri posti di lavoro in questa famiglia che definisco patriarcale. Dove non c’è scambio di opinioni ma tutto è calato dall’alto”.

Chi lavora in Amazon da tempo parla di “ghettizzazione” dopo la decisione di iscriversi al sindacato: “Ci trasferivano a mansioni meccaniche e sfiancanti con la minaccia che a causa nostra avrebbe chiuso il magazzino”, e incentivi all’esodo che sembrano la norma: “Dopo due o tre anni, al massimo cinque, si tengono riunioni per decantare il beneficio di poter usufruire di incentivi per uscire dall’azienda. Ma per cinque anni vengono offerti al massimo 5mila euro. Una miseria”, hanno spiegato altri impiegati nel magazzino di Castel San Giovanni.

Quella di Amazon, in provincia di Piacenza, è una realtà passata da 60 unità nel 2011 a 1500 del 2016. Un incremento prezioso dei posti di lavoro in periodo di crisi, anche se molti iniziano a chiedersi a che prezzo: “Fare carriera è impossibile, persino i manager che vengono cambiati spesso – dice una ragazza assunta da tre anni – perché anche loro non ce la fanno a sostenere certi ritmi. Mi sento una lavoratrice usa e getta, per questo non vedo un futuro in Amazon”.

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