Avviene che una donna subisca violenza e decida di denunciare. Non una, più volte. Chiede aiuto alle istituzioni per essere protetta, insieme al figlio, dai maltrattamenti e dalle minacce di un uomo violento ma avviene che venga lasciata sola. Non è lei a morire, nell’ennesima aggressione violenta del marito ma il figlio che interviene per difenderla. A 19 anni Ion cade per le coltellate del padre, Andrej Talpis, e sua madre Elisaveta finisce in fin di vita, ma sopravvive. E’ accaduto a Remanzacco, in provincia di Udine nel 2013.

Oggi la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia con una sentenza, la prima che riguarda maltrattamenti in famiglia, per aver discriminato una donna e perché «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta, le autorità italiane hanno privato la segnalazione di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio». La sentenza sarà definitiva tra tre mesi se non ci sarà ricorso delle parti.

A presentare il ricorso è stata Titti Carrano, avvocata e presidente D.i.Re, la rete dei Centri antiviolenza: “Nella storia di questa donna ci sono tutti gli elementi di violenza ripetuta, grave e soprattutto sottovalutata e non riconosciuta. La donna aveva denunciato più volte, aveva anche chiesto aiuto, ma il Comune non aveva ritenuto la situazione così grave. La donna si era rivolta a una casa rifugio a Udine, ma il Comune non aveva voluto pagare la retta perché non riteneva la sua situazione così grave. Per un po’ di tempo lei era rimasta gratuitamente, ma poi era tornata a casa, sentendosi totalmente abbandonata dalle istituzioni”, ha raccontato.

Che cosa è mancato? Valutazione del rischio, riconoscimento della violenza, non si è creduto alle parole della donna? Cosa ha rallentato, bloccato le leggi, le procedure, i protocolli a tutela di donne vittime di violenza e dei loro figli? Da anni i centri antiviolenza lo dicono. Le leggi ci sono, quello che manca è una adeguata formazione, competenze che rendano capaci di riconoscere la violenza, di valutare quanto sia elevato il rischio e di intervenire velocemente mettendo in protezione la donna con i figli. Pesa ancora il pregiudizio sessista sulla credibilità della donna perché troppi stereotipi remano contro le donne e la loro testimonianza accade ancora non sia ritenuta attendibile.

Sottolinea Titti Carrano che le denunce c’erano, che c’erano anche le case rifugio, ma nulla è stato fatto nemmeno un ordine di allontanamento è stato spiccato e quell’uomo ha potuto restare a casa continuando con il terrore e le violenze fino alla conclusione definitiva. Una responsabilità dello Stato italiano e di qualcosa che non ha funzionato. “Non ci sono state le misure cautelari nei confronti dell’uomo, non c’è stata la protezione della donna, non c’è stato nulla“, ha concluso Titti Carrano.

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