La Cina deve aumentare esponenzialmente la propria spesa per la Difesa. È quanto sostengono diversi analisti di questioni militari in vista del Lianghui – la doppia seduta dei parlamenti cinesi in programma la settimana prossima – in cui il Congresso Nazionale del Popolo annuncerà il budget destinato quest’anno all’Esercito Popolare di Liberazione (Epl), il più grande esercito del mondo.

Se gli Usa di Trump sembrano quindi puntare molto sul complesso militare-industriale, gli esperti strategici cinesi raccomandano una risposta adeguata. Pechino ha bisogno di tornare agli incrementi a doppia cifra delle spese per la difesa – dicono – per affrontare le sfide crescenti della nazione, sia in patria, sia all’estero. Nel 2016, tale spesa si era assestata sui 954 miliardi di yuan (138,6 miliardi di dollari Usa), per un aumento del 7,6 per cento rispetto all’anno precedente. Si era trattato del primo aumento a una sola cifra dal 2010, il che aveva sorpreso molti osservatori di cose cinesi.

Possibile – ci si chiedeva – che proprio il presidente Xi Jinping, colui che ha dato una sterzata patriottica alla politica cinese, riduca la crescita delle spese militari? Un anno fa, tale incremento “contenuto” era stato spiegato con il fatto che la leadership volesse rendere l’esercito più agile, moderno, efficiente. Basta agli sprechi, riduzione di 300mila effettivi e investimenti destinati invece all’avanzamento tecnologico dell’Epl e alle esercitazioni sul campo. Si punta a una forza militare che sappia reagire in tempo reale ad eventuali minacce esterne.

I dettagli del budget non sono mai disponibili, ma i documenti ufficiali citano, tra le voci di spesa, gli stipendi e gli alloggi del personale, la formazione, le esercitazioni, le armi e l’equipaggiamento. Rajeev Ranjan Chaturvedy, un ricercatore indiano citato dal South China Morning Post di Hong Kong, ritiene che gli investimenti devono puntare soprattutto al rafforzamento della Marina, delle tecnologie spaziali e della difesa informatica. Non solo hardware, quindi, settore nel quale la Cina è all’avanguardia, ma anche software, dove invece deve ancora colmare il gap.

C’è poi la spesa sociale per i famosi 300mila “esuberi” dell’Epl (annunciati dal presidente Xi Jinping a fine 2015), cioè il welfare militare. Eventuali prepensionamenti farebbero schizzare in alto le voci di spesa. Risolvere la questione dei licenziamenti è del resto fondamentale per garantire la stabilità sociale, vero e proprio chiodo fisso per la leadership. Negli ultimi mesi – anzi anni – a Pechino si sono tenute diverse pubbliche proteste di veterani – specialmente i reduci dell’infausta guerra di frontiera contro il Vietnam del 1979 – che si sentono “abbandonati” dalla patria per cui hanno combattuto e chiedono pensioni al passo con i tempi. L’ultima manifestazione si è svolta la settimana scorsa, ma non risulta che gli esuberi attuali siano coinvolti.

Ecco poi la minaccia Trump. Si sa che da ambienti interni all’Epl e dai loro referenti politici arrivano pressioni: non possiamo far sì che il gap con la potenza bellica dei Paesi Nato aumenti, dobbiamo reagire. Si consideri che la spesa militare cinese ammonta a meno di un terzo di quella statunitense (secondo i dati del 2015, 598 miliardi di dollari a 146) che, certo, include anche le missioni all’estero, ma va ad aggiungere risorse a un comparto militare che è già il più potente del mondo. Pechino a oggi spende circa 80mila dollari l’anno per ogni suo soldato, mentre Washington ne spende 430mila, secondo il generale in pensione cinese Xu Guangyu.

La Cina ha registrato una crescita a due cifre sulla spesa per la Difesa nel corso di diversi anni fino al 2016, provocando allarme tra i Paesi confinanti. Le loro preoccupazioni sono aumentate anche a causa delle pretese sempre maggiori di Pechino sulle zone contese nei mari che circondano la Cina. Trump ha promesso durante la sua campagna elettorale di aggiornare la dotazione militare degli Stati Uniti con la costruzione di 80 navi da guerra avanzate e di almeno 100 nuovi aerei da combattimento. Il più stretto alleato asiatico di Washington, il Giappone, ha approvato a dicembre un piano di riarmo dal 43,5 miliardi di dollari, con un aumento dell’1,4 per cento rispetto all’anno precedente. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, da parte sua, sembra essere un buon amico della Cina. Ciò nonostante, tra i due Paesi non mancano le dispute nel Mar Cinese Meridionale e Manila ha varato un budget militare, per il 2017, di 2,76 miliardi di dollari, con un aumento di circa il 18 per cento.

Quanto alla Cina, la recente predilezione per la marina, a cui va a aggiunto l’investimento nelle nuove tecnologie, si spiega con le esigenze strategiche del Paese. La dottrina militare di Pechino non prevede l’intervento in teatri di guerra esterni – al contrario di quella Usa – ma punta a tenere a distanza eventuali aggressori del suolo cinese e a garantire le rotte di approvvigionamento che, dal Golfo Persico, muovono attraverso l’Oceano Indiano e, quindi, lo stretto di Malacca. Secondo fonti del governo Usa, Pechino avrebbe quindi già approvato il progetto che mira ad avere una flotta forte di 351 navi antro il 2020, nella quale dovrebbero spiccare la seconda portaerei cinese – la prima totalmente made in China – e un cacciatorpediniere di nuovo tipo, lo 055, che potrebbe essere lanciato quest’anno. Ma i costi per questi progetti sono già stati messi a bilancio anni fa e non rientreranno nel budget 2017. Che conosceremo tra circa una settimana.

Gabriele Battaglia

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