di Riccardo Giuliano

Oramai la storia del bonus sembra essere diventata una telenovela stile Beautiful, un numero interminabile di puntate la cui trama è sempre la supercazzola degli 80 euro che qualcuno si ostina a definire una vittoria quando la realtà dei fatti è leggermente differente.

Innanzitutto un bonus, per definizione, dovrebbe essere un emolumento non restituibile e quindi non concepito sulla base del reddito presunto ma sul reddito in quel momento percepito e in aggiunta al medesimo. Tutti sappiamo che il perverso meccanismo che lo determina si basa su un calcolo algoritmico che, alla fine dei conti, penalizza un quantitativo elevato di possibili percettori.

Se, infatti, durante l’anno, il povero dipendente accumula straordinari o percepisce un vero “bonus” per la produttività raggiunta, ecco scattare inesorabile la sospensione del regalino renziano che, in tutto il suo splendore, ritornerà come conguaglio a fine anno per le somme che hai percepito quando il tuo reddito prevedeva che non avresti raggiunto la soglia massima prevista. Di fatto, se nei primi mesi dell’anno ricevi, ad esempio, 30 euro per tre mesi di bonus, se superi la fatidica soglia dei 26.000 euro di reddito annuo ti dovrai preparare a restituire quanto percepito come se avessi ricevuto un prestito a tasso zero non dalla solita finanziaria bensì direttamente dallo Stato.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perché inventarsi una formula con siffatta architettura che sembra studiata proprio per non farti capire il meccanismo della restituzione anziché stabilire, in maniera netta, un bacino di beneficiari definiti, nei numeri e a monte? Da questa considerazione nasce la distorta, ma corretta, percezione degli italiani sulla questione bonus i quali, pensando di poter contare su un contributo con cui sopperire a qualche spesa extra si ritrovano, all’improvviso, a dover rinunciare al tanto agognato “party”.

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