Uno in più. Se, come sembra, la scissione del Pd si farà davvero, la “nuova cosa rossa” andrà ad arricchire la già variegata galassia della sinistra italiana. Veterocomunisti e post-comunisti di vario genere, socialisti e social-democratici di diverse inclinazioni, appena nati o frutto di rifondazioni mai terminate, moderati o radicali: partiti e movimenti, in quell’area, sono così numerosi che risulta difficile anche solo stilarne un elenco esaustivo. Alcuni (pochi, in realtà) rivendicano la propria vocazione maggioritaria, e si propongono come forze egemoni del progressismo. Altri, invece, li si sente nominare di rado, magari solo a ridosso delle elezioni politiche, quando le tribune elettorali, in tv, sono obbligate per legge a dare spazio anche alle forze minori. Ci sono quelli che aspirano a costituire vaste alleanze e quelli che invece rivendicano con orgoglio la propria autonomia. Il quadro che ne viene fuori, comunque, è quello di un gruppo affollato, tendenzialmente litigioso, e soprattutto piuttosto confuso. Anche perché, come la vicenda del Pd di queste ore insegna, la nascita di nuove forze che complichino ancora più la situazione è sempre incombente.

Partito Democratico. Del Pd si sa quasi tutto. Della sua storia ufficiale, almeno. Fondato nel 2007 da Walter Veltroni che aspirava a creare una forza autonoma che potesse “correre da sola” alle elezioni, nacque sostanzialmente dall’unione dei Ds e della Margherita. “Il Partito democratico? Un partito a vocazione maggioritaria”, ripeteva entusiasta Veltroni nell’estate del 2007. “Una fusione a freddo tra apparati”, lo definirà, qualche anno dopo, Achille Occhetto. Un matrimonio mai realizzatosi, insomma. E infatti quello che si sa meno, del Pd, è ciò che riguarda le sue varie componenti che tra loro convivono assai a fatica, talvolta sopportandosi a stento, talvolta – come in queste ore –arrivando allo scontro vero e proprio. Si chiamano “correnti”, e capire quante siano è arduo. Gli ultimi conteggi si fermano a 11: si va daAreaDem di Franceschini ai Renziani (divisi tra loro tra ortodossi e critici); dalla minoranza bersaniana a Sinistra è Cambiamento di Maurizio Martina, fino ai Giovani Turchi, che in queste settimane si sono spaccati tra i seguaci di Andrea Orlando e quelli di Matteo Orfini. E gli smottamenti che seguiranno alla scissione sembrano già preannunciare nuovi raggruppamenti: il più importante è quello guidato da Gianni Cuperlo e Cesare Damiano.

Sinistra Italiana. È appena nato, ma ancora prima di essere creato ha dovuto affrontare una divisione. In pieno stile “di sinistra”, ha detto qualcuno. Per tenere il proprio battesimo, il partito che raccoglie l’eredità di Sel (creata e guidata da Nichi Vendola) ha scelto il fine settimana sbagliato, quello in cui i riflettori di tutti i media erano puntati sugli scontri interni al Pd. Il congresso fondativo di Sinistra italiana si è svolto a Rimini, e ha incoronato Nicola Fratoianni come nuovo segretario. Era l’unico candidato, in realtà. Dovrà affrontare subito una bega interna, che nei giorni scorsi ha causato, tra l’altro, l’addio di Arturo Scotto, il quale ha abbandonato il cantiere del nuovo partito di cui era considerato un possibile leader. Il problema di fondo? Stabilire se Si dovrà essere un soggetto autonomo, in grado semmai di stringere alleanze in occasione delle elezioni, o non piuttosto trasformarsi “da subito”, come ha proposto Alfredo D’Attorre, in “un movimento largo che vada da D’Alema alla sinistra del Pd fino al Campo progressista di Giuliano Pisapia”. Oltre a Fratoianni e D’Attorre, le figure di maggior prestigio che hanno partecipato al congresso sono legate al mondo sindacale: Sergio Cofferati e Maurizio Landini.

Campo progressista. Si tratta del nuovo movimento creato da Giuliano Pisapia, l’ex sindaco di Milano e protagonista della “Rivoluzione arancione” della primavera del 2011. Dopo annunci affrettati e parziali retromarce, è stato presentato ufficialmente il 14 febbraio scorso nel capoluogo lombardo. Insieme a Pisapia, a presentarlo c’erano anche Gad Lerner (che poi ha partecipato all’Assemblea nazionale del Pd domenica scorsa), la presidente della Camera Laura Boldrini (applauditissima anche al congresso fondativo di Si a Rimini) e Massimiliano Smeriglio (che è salito, sabato 18, anche sul palco del teatro Vittoria a Roma, dove si riuniva la minoranza scissionista del Pd). È il segno di un’instabilità forte nell’area in cui Campo progressista si situa, cioè quello alla sinistra del Pd (ma non troppo “a sinistra”: anche Bruno Tabacci, per dire, ha espresso grandi apprezzamenti per Pisapia). Ancora poco chiara la natura effettiva del movimento: farà da sponda al nuovo Pd di Renzi o cercherà asilo in una coalizione con altre forze, compresa la nuova creatura di Bersani e D’Alema? Per ora, Campo progressista ha attratto un buon numero (18, in tutto) di parlamentari vicini ad Arturo Scotto, che parevano destinati ad accasarsi in Si. Forse qualcosa in più lo si capirà l’11 marzo: il giorno in cui, a Roma, Pisapia lancerà a tutti gli effetti il suo movimento. Prima, però, potrebbe esserci la creazione di nuovi gruppi parlamentari, forse proprio insieme ai fedeli di Scotto e agli scissionisti del Pd più vicini a D’Alema.

Possibile. Frutto di una scissione dal Pd, pure questo. Ma non si tratta della “cosa nuova” dei “tre tenori” Rossi-Speranza-Emiliano. In principio fu infatti Pippo Civati a rompere con Renzi (allora in auge) e a fondare una nuova forza. Era il giugno del 2015. Il primo banco di prova di Possibile fu la campagna per gli 8 referendum (si andava dalla legge elettorale alla tutela dei lavoratori, passando per l’ecologia), e non fu un successo, visto che il numero minimo di firme non venne raggiunto. Civati in questi due anni ha proseguito su un percorso autonomo (con coraggio o con testardaggine, a seconda dei punti di vista), ha sostenuto con convinzione il No al referendum e ora pregusta la possibilità di far parte di una alleanza con le altre forze a sinistra del Pd. Tra le figure più in vista ci sono Luca Pastorino (candidato ribelle alle ultime elezioni regionali in Liguria) e l’europarlamentare Elly Schlein.

Rifondazione comunista. Non è più il punto di riferimento dei nostalgici che non accettarono di mandare in soffitta la bandiera rossa, ma un partito quasi scomparso dai radar della politica. Il suo leader, Paolo Ferrero, è stato molto attivo nella campagna per il No al referendum costituzionale, ma le ultime sue immagini rimaste nella memoria degli appassionati (di quelli molto attenti, almeno) riguardano forse un’altra battaglia, combattuta su suolo straniero: quella che ha portato Alexis Tsipras a vincere le elezioni in Grecia nel gennaio 2015. Il futuro di Rifondazione è quantomeno incerto: a definirlo servirà forse il decimo congresso del partito, che si svolgerà a Spoleto a fine marzo.

ConSenso. È ancora difficile capire di cosa si tratti, con esattezza. Ma una cosa è certa: a guidarlo è, di fatto, Massimo D’Alema, e dunque c’è da scommettere che non sarà ininfluente nel determinare gli equilibri futuri del centrosinistra. Nato inizialmente come un comitato elettorale in sostegno del No al referendum, dopo il 4 novembre non ha affatto smesso di esistere, come l’ex premier aveva più volte garantito. E il 28 gennaio scorso, al Centro Congressi Frentani, a Roma, c’è stato il battesimo ufficiale del nuovo movimento politico: ConSenso. È stato quello il luogo in cui, per la prima volta con toni inequivocabili, è stata prefigurata la scissione nel Pd.

Italia dei Valori. Il suo leader è stato affondato da un’inchiesta di Report nell’ottobre del 2012, il suo consenso perlopiù prosciugato dall’ascesa del Movimento Cinque Stelle. È così che il partito creato nel 1998 da Antonio Di Pietro è stato condannato all’irrilevanza. Conserva 3 seggi al Senato, ma le sue percentuali sono da prefisso telefonico. Dal giugno 2013 è guidata da Ignazio Messina, 52enne palermitano ex sindaco di Sciacca. Prospettive di rilancio? Ben poche.

Dema. La creatura di Luigi De Magistris. Era una un’associazione culturale, è diventata un movimento politico. Annunciata subito dopo la rielezione dell’ex magistrato a sindaco di Napoli, la trasformazione è stata ufficializzata nel dicembre scorso. S’ispira al cosiddetto “neo-municipalismo” e all’esperienza di alcune giunte movimentiste come quella guidata da Ada Colau a Barcellona, ma è costituita perlopiù da assessori e uomini di fiducia di de Magistris. Nell’ottica della nuova battaglia tra Pd e scissionisti per la conquista delle regioni del Sud, Dema potrebbe allearsi con una ipotetica forza guidata da Michele Emiliano. All’opposto di quanto farebbe Campania Libera, l’altro movimento politico partenopeo fondato da Vincenzo De Luca. Il quale, nel gioco delle alleanze post-scissione, resterebbe invece fedele a Renzi.

Comunisti imperterriti: in sei formazioni diverse. C’è poi chi alla falce e al martello continua a non rinunciare. Sono vari, tutti piccolissimi e tra loro divisi, ma esistono. C’è il Partito Comunista, di Marco Rizzo, ma anche il Partito Comunista Italiano, e poi c’è, ovviamente, il Partito di Alternativa Comunista. Non manca neppure il Partito Comunista dei Lavoratori, che si distingue dagli altri per la sua vocazione trotskista, guidato da Marco Ferrando. Sopravvive anche il Partito Comunista Italiano Marxista, e accanto resta il Partito Marxista-Leninista Italiano. Formazioni ormai marginali, che difficilmente accettano di entrare a far parte di coalizioni più o meno ampie e che comunque risultano perlopiù ininfluenti ai fini dei giochi elettorali.

Partito Socialista Italiano. Il nome vanta una storia gloriosa, il partito attuale gode di pessima salute. Finiti i tempi d’oro di Nenni e di Craxi, il Partito Socialista Italiano ha cambiato più volte nome e alleanze (coi Verdi prima, coi Radicali poi), per tornare infine ad una sua presunta autonomia. L’ultima volta che si presentò da solo alle elezioni nazionali (era il 2008) raggranellò in verità lo 0,9% dei voti, ma l’anno scorso è riuscito comunque a dividersi al suo interno: tra chi, come Bobo Craxi, proponeva di rompere con Renzi, e chi invece affermava la necessità di restargli fedele, come predicava Riccardo Nencini. Il quale, sin dal 2008, guida il partito, e a partire dal 2013 ha scelto come strategia quella di portare in dote alla coalizione di centrosinistra un misero numero di voti che comunque gli permetta di ottenere una poltrona. Attualmente occupa quella di viceministro dei Trasporti: lo fa dal febbraio 2014. E cioè da quando – dopo esser stato assessore al Bilancio nella giunta toscana di Enrico Rossi dal 2010 al 2013, e aver poi sostenuto Bersani nelle primarie del 2013 – si è convertito al renzismo nel momento in cui il Rottamatore è arrivato a Palazzo Chigi

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