Obbligo di registrazione e di rettifica entro 48 ore per tutti i blog e siti di informazione, obbligo di sorveglianza generale – o poco ci manca – per i gestori dei social network e delle piattaforme di condivisione di contenuti prodotti dagli utenti, pene pecuniarie e detentive per chi pone in essere una serie di condotte descritte in modo tanto vago ed evanescente da abbracciare al tempo stesso qualsiasi forma di reato di opinione così come ogni forma di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.

Può essere riassunto così – parola più parola meno – il contenuto del disegno di legge (Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica) attraverso il quale i senatori Gambaro (Ala), Mazzoni (Ala), Divina (Ln-Aut) e Giro (FI-Pdl) sembrano intendere dichiarare guerra al fenomeno planetario delle cosiddette “fake news”, le notizie false che rimbalzano sul web [e per la verità non solo sul web], influenzando le vicende della politica, dell’economia e della società e distorcendo la percezione della realtà da parte dell’opinione pubblica.

Dell’iniziativa legislativa tripartisan si è già detto e scritto molto e non sono mancate né critiche, né perplessità sollevate da più parti e per ragioni diverse.

E’ buona regola – lo suggeriva già Schopenhauer nel suo “Il mestiere dello scrittore” – scrivere solo quando si ha, per davvero, qualcosa da aggiungere a quanto già scritto da altri e, quindi, a un dibattito in corso. Spero di non tradire questa buona regola aggiungendo una manciata di considerazioni a quelle già fatte, da tanti, sin qui. Tuttavia la questione è centrale per il futuro dell’ecosistema internet e, forse – senza voler abusare del termine – per il futuro della nostra democrazia e, probabilmente, merita qualche parola in più.

E’ ovvio, innanzitutto, che si può scegliere di leggere il testo del disegno di legge in questione e poi lasciarlo scivolare distrattamente sulla scrivania – o addirittura nel cestino – semplicemente scuotendo le spalle e pensando che tanto non esiste nessuna concreta possibilità che, in una stagione politica come quella attuale, questa legislatura darà mai alla luce una legge sul web. Non c’è tempo e, soprattutto, deputati e senatori sono, ormai, in tutt’altre faccende affaccendati.

Ma un disegno di legge è qualcosa di più che una manciata di parole pronunciate da questo o quel parlamentare in un dibattito pubblico e, quindi, sembra opportuno mettere nero su bianco – anche solo a futura memoria – perché quello proposto in Senato nei giorni scorsi è una cura peggiore del male, che nasce vecchia, non risolverebbe alcun problema e, anzi, ne creerebbe a dozzine di nuovi e più perniciosi.

Prima di avventurarsi in questo ragionamento val la pena – per fugare ogni dubbio – chiarire che il problema delle notizie false che rimbalzano online come offline nei cosiddetti “nuovi media” così come in quelli vecchi e meno nuovi è un problema reale, globale, importante anche se né nuovo, né sconosciuto a chi si occupa di media giacché di notizie false – persino di guerre inventate e documentate in studi cinematografici – è piena zeppa la storia.

Le ricette proposte dai quattro senatori firmatari del disegno di legge sono però anacronistiche, inattuabili, inefficaci e, soprattutto ad alto rischio di deriva liberticida.

Un giudizio netto e severo che merita qualche spiegazione.

Cominciamo dal principio.

Il disegno di legge propone – e la circostanza ha di per sé dell’incredibile – che tutti i gestori di blog e siti internet debbano notificare via Pec (posta elettronica certificata) al Tribunale una sorta di dichiarazione di inizio di attività che non è esattamente una registrazione come quella richiesta ai periodici di carta ma poco ci manca.

Vale forse la pena di ricordare ai firmatari della nuova iniziativa legislativa che la prima volta che in Italia qualcuno propose una simile follia giuridica era il 2007, presidente del Consiglio era Romano Prodi e ministro delle Comunicazioni, l’attuale premier Paolo Gentiloni.

E toccò proprio a quest’ultimo, con un gesto di raro coraggio e altrettanta rara trasparenza, riconoscere che la proposta di obbligare i gestori dei siti internet a registrarsi in Tribunale era stata un errore da correggere in fretta.

Che dieci anni dopo qualcuno rispolveri dalla soffitta una soluzione già bollata come pericolosa, inattuabile e inutile dieci anni prima è circostanza sulla quale ogni parola in più risulterebbe poco rispettosa dei lettori.

Vale solo la pena appuntare che chiedere alle centinaia di migliaia di gestori di siti web (italiani?) di inviare una Pec in Tribunale è, nell’ordine: (a) inattuabile perché nessuno o quasi nessuno dei destinatari dell’obbligo in questione dispone di una Pec che è appannaggio pressoché esclusivo di professionisti ed imprese, (b) inutile perché non c’è autorità che sarebbe poi in grado di controllare il rispetto di un obbligo tanto massivo e, soprattutto, perché il web è liquido e senza confini geografici con l’ovvia conseguenza che una volta fatti registrare tutti i siti web “italiani” – qualsiasi cosa si decidesse di intendere con questa espressione – le temute fake news rimbalzerebbero in Italia, almeno sulla carta, da Oltralpe o Oltreoceano e (c) pericoloso perché, per fortuna, ad oggi scrivere, anche online, ciò che si pensa senza firmarsi (che non significa restando anonimi in senso assoluto, ndr) è lecito e, anzi, talvolta necessario e indispensabile.

E vale la pena ricordare ricordare agli onorevoli firmatari dell’iniziativa legislativa che, proprio come l’obbligo di registrazione di blog e siti internet, anche l’idea di imporre in capo a questi ultimi l’obbligo di rettifica entro 48 ore così come già previsto per gli editori professionisti è idea vecchia e arci-vecchia, valsa alle decine di disegni di legge che negli ultimi dieci anni l’hanno ospitata l’appellativo di norma “ammazza-web”.

Davvero nel 2017 si vuole dichiarare guerra al fenomeno delle fake-news con una ricetta che è già valsa all’Italia, negli ultimi anni, dozzine di punti (persi) nelle classifiche mondiali sulla libertà dei media?

E veniamo al terzo pilastro – anche se l’espressione suggerisce una stabilità difficilmente compatibile con l’estrema fragilità dell’impianto sul quale appare costruito il disegno di legge – dell’iniziativa anti-fake news.

Imporre ai gestori dei social network e dei siti di condivisione di contenuti per conto terzi un autentico obbligo di monitorare i miliardi di contenuti pubblicati, su base planetaria, sulle proprie pagine e intervenire tempestivamente a rimuovere quelle che appaiano – perché solo un giudice può dire per davvero che una notizia è falsa o, addirittura “esagerata”, come si propone nel disegno di legge – fake news.

Difficile, sotto questo profilo, astenersi dal ricordare ai firmatari del disegno di legge che era il 2000 quando l’Unione europea stabilì un principio che è caposaldo di civiltà, libertà e democrazia online diametralmente opposto a quello che loro vorrebbero veder introdotto nel nostro ordinamento: il divieto, per tutti i Paesi membri dell’Unione europea di imporre ai cosiddetti “intermediari della comunicazione” qualsivoglia obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati dai propri utenti.

Un divieto che ha una spiegazione semplice e di straordinaria importanza: se lo Stato chiede a un soggetto privato di verificare ciò che i propri utenti pubblicano attraverso i propri servizi, questo soggetto, a tutela del proprio portafoglio, inizierà a limitare e restringere la libertà dei propri utenti di dire ciò che pensano online, sacrificando così l’idea che Internet possa rappresentare quella grande agorà democratica – che non significa né Far West, né zona franca senza regole – della quale tutti avvertiamo un gran bisogno.

Ed è, forse, proprio questa – tra le tante – la previsione della nuova iniziativa legislativa tripartisan più liberticida o, almeno, suscettibile di più immediate e pericolose derive liberticida.

Non è così, insomma, che si dichiara guerra alle fake news e questo sempre ammesso che sia per davvero necessario immaginare leggi da corte marziale contro un fenomeno che, forse, è figlio solo dei tempi e rispetto al quale l’opinione pubblica svilupperà in fretta naturali anticorpi.

La buona informazione, a tutti i livelli – professionali e non – è, probabilmente, la miglior cura contro la cattiva informazione e quindi, non è detto che servano leggi speciali, obblighi e sanzioni per difendere cittadini e utenti della rete dalle bufale online.

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