Le decisioni che ha preso Trump nelle prime due settimane di pieno potere esecutivo non sono solo sbalorditive, ma mettono in discussione persino la sua conoscenza delle regole di una democrazia matura. Le sue iniziative si discostano, infatti, non solo da quelle che possono essere considerate normali divergenze politiche, ma anche da ciò che è normale prassi democratica per chi viene eletto. Lui sta dando priorità solo alle sue promesse fatte in campagna elettorale al fine di vincere sui suoi avversari politici che lui ha sconfitto ad uno ad uno. Ha calcolato molto bene gli umori dell’elettorato e ha fatto promesse di volta in volta allettanti a seconda degli Stati che visitava. Da perfetto populista! E alla fine ha vinto (io l’avevo previsto).

Benché ai navigati politici americani quelle promesse suonassero solo come “fanfaronate”, la loro convinzione fu che, presto o tardi, Trump sarebbe stato vinto. Pochi lo hanno aiutato, molti hanno preso le distanze da lui, isolandolo. Era candidato per il Partito Repubblicano, il vecchio, glorioso, Grand Old Party, ma ha vinto da solo e deve arrangiarsi da solo. Talmente solo che ha difficoltà persino a formare la sua squadra di governo. Nessun leader serio è disposto a entrare in squadra agli ordini di quel miliardario spaccone che si svela ogni giorno gravemente impreparato persino sotto il profilo istituzionale. Infatti Trump, per evidenziare il suo decisionismo, e per confermare che è di parola, ha avviato da subito azioni esecutive che, pur essendo state annunciate spesso nel suo programma elettorale, hanno colto di sorpresa un po’ tutti per la loro frettolosità e inadeguatezza istituzionale.

Elliot Abrams, uno dei pochi notabili del Gop che ha buoni contatti con Trump e che aveva già lavorato nei governi Reagan e Bush, dopo aver detto No egli stesso a coprire qualche incarico nel governo Trump, si è visto rispondere No anche dai molti altri notabili del partito che lui ha contattato (a noi italiani ricorda molto le difficoltà patite dalla “Giunta Raggi” romana).

Nell’articolo sul New York TimesTrump, an Outsider Demanding Loyalty, Struggles to Fill Top Posts” (Trump, un estraneo che chiede lealtà, lotta per riempire posizioni di vertice) si spiegano le difficoltà di Trump a completare il suo esecutivo.

Il motivo principale è che tutti i maggiorenti repubblicani avevano già sottoscritto impegno a sostenere altri candidati, quindi dichiarandosi contrari alla linea politica di Trump. Oggi perciò, oltre al muro che i democratici gli hanno alzato al Senato, lui si vede isolato anche da quelli che dovrebbero essere i suoi maggiori alleati. Sono ben 6 su 15 i titolari di dicasteri che ancora oggi mancano all’approvazione del Senato. Ma i posti da coprire (tra titolari, segretari e sottosegretari) sono circa 4000, e finora ce ne sono al loro posto solo una piccola parte.

Ma quel che è peggio è la sua incapacità di valutare le pessime conseguenze che il suo estremo ed  improvvisato modo di fare procura alle istituzioni democratiche. Egli ha promesso che ridurrà le tasse, che taglierà le regole, che creerà migliori condizioni per il business, che tutelerà i lavoratori, ecc. Ma poi mantiene le promesse a modo suo. Ha promesso per esempio che cancellerà subito la nuova norma del “Fiduciary rule”, varata dal Dipartimento del Lavoro nel 2016 (entrerà in vigore il prossimo mese d’aprile). Questa norma stabilisce che nel rapporto fiduciario tra intermediario finanziario e risparmiatore, l’interesse prevalente da tutelare è quello del risparmiatore, cioè la parte più debole. Se Trump, come ha promesso, cancellerà quella norma favorirà invece l’intermediario.

Ciò che Trump ha detto nella lunga campagna delle primarie sta apparentemente e rapidamente diventando vero, dice Matt Levine in “Trump vs. the Rule of Law”, ma le priorità sarà Trump a darle, perciò ci sono molte promesse che potrebbero rimanere tali. Ma anche tra le cose che lui realizza subito, e che magari rende felice la peggior parte della popolazione che lo ha votato, ci possono essere conseguenze gravi per la vita democratica dell’intera nazione.

Per esempio la frettolosa decisione di inibire subito l’ingresso sul suolo americano ai musulmani provenienti da nazioni che mantengono rapporti coi terroristi crea grave confusione e disagio sul piano della legalità. Il suo ordine esecutivo vale anche su coloro che sono già in possesso della green card, la carta che assegna permesso di residenza e di lavoro, con validità permanente, a chi non è nato sul suolo americano. Diversi giudici, anche federali, hanno decretato l’illegalità di questo ordine esecutivo in quanto non ha requisiti di urgenza tali da superare la titolarità del Congresso per l’approvazione delle leggi. Compete all’organo giudiziario stabilire se le decretazioni d’urgenza del presidente hanno carattere immediatamente esecutivo. Se un giudice federale dice che è illegale il presidente dovrebbe ritirare tale ordine. Se non lo fa, il giudice non può ordinare al presidente di obbedire, ma così è l’intero impianto democratico ad essere messo in discussione. Alcuni agenti possono obbedire al presidente, altri possono obbedire al giudice. Così cessa il principio della legalità.

La nazione della legalità, nella quale milioni e milioni di immigrati sono sbarcati fiduciosi che, rispettando la legge, avrebbero trovato giustizia, ora non c’è più. E’ finita. Rimpiazzata da una nazione che è regolata da decisioni arbitrarie emesse da un capo supremo che si ritiene al di sopra di tutto e di tutti. Proprio quello che, da sempre, l’America delle libertà ha combattuto.

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