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16-dicembre-2015

No, non è Bruxelles. Questa è Molenbeek e basta.

Questa è un’altra città.

Conosco poco Bruxelles. Frequento solo, e raramente, le istituzioni europee, tutte acciaio e vetro, tutte geometria, e Bruxelles è molto di più: ma qui riaffiori dalla metro, alla fermata Ribaucourt, e riaffiori a Napoli. Riaffiori agli antipodi di Bruxelles. Con le strade strette e intasate, le auto che sgommano, e questi ragazzi, fermi a un palo, come i ragazzi delle paranze, le Nike alla caviglia, le cuffie. Il giubbotto di pelle. Sembra Forcella. Solo che sono tutti musulmani. E di istinto, confesso, la prima reazione è la paura. Ti senti solo. Vulnerabile.

Solo in mezzo agli stranieri.

Che poi non ha senso: perché in realtà lo straniero, qui, sei tu.

Molenbeek sembra il Cairo. Sembra Amman. Con tutte queste botteghe di una volta, l’elettricista, il barbiere, il fruttivendolo. L’orologiaio. E un negozio di vestiti usati che sono usati veramente: non un negozio di vintage, di minigonne e cappelli e giacche anni Settanta, ma di vestiti come quelli distribuiti dalla Caritas, logori, sbiaditi. Giacche con fori di tarme. E poi questi negozi di abbigliamento, con tutti i vestiti, fuori, appesi alle grucce. Perché al kebab siamo abituati, ormai, e una macelleria halal è uguale a ogni altra macelleria: ma questi sono negozi di vestiti arabi: vestiti lunghi, e larghi, scuri, hijab, mantelli. Tuniche.

Non c’è un belga in giro.

E a Bruxelles, d’altra parte, nel centro di Bruxelles, non c’è un arabo. Sono tutti bianchi. Bianchi e impeccabili, tutti eleganti, con le Church’s e la camicia con le iniziali. Sono letteralmente due città diverse. Fisicamente diverse: Molenbeek ha circa 100mila abitanti, e una densità che è il doppio della densità del resto della città. Anche se è a venti minuti di distanza. Non di più. Non che mi aspettassi la banlieue di Parigi: però mi aspettavo una periferia. Venti minuti di metropolitana, non venti minuti a piedi: e invece Molenbeek è in pieno centro. Attraversi un canale, tiri dritto, e sei nella Grand-Place. Ma per il resto di Bruxelles, è come se Molenbeek non esistesse. Da qui, è noto, sono arrivati molti dei più famosi terroristi degli ultimi anni. Quelli degli attentati di Parigi del 2015, ma anche, per esempio, quelli che in Afghanistan, nel 2001, uccisero il comandante Massoud, che si opponeva ai talebani. Eppure, adesso che sono qui, non capisco come sia stato possibile meravigliarsi. E da dove altro avrebbero potuto arrivare?

Mi meraviglia la meraviglia.

I jihadisti variano molto da paese a paese. Hanno storie diverse. Motivazioni diverse. Per i jihadisti della Tunisia, per dire, la povertà ha un ruolo essenziale. Si parte per la Siria come un tempo si partiva per l’Europa: in cerca di lavoro. Ma per i jihadisti della Cecenia, la povertà è irrilevante. Qui non è questione di povertà, né assoluta né relativa, anche se ovviamente chi vive a Molenbeek guadagna meno di chi vive altrove. Ma qui è evidente: è questione di apartheid. E apartheid è proprio il termine giusto. Sono due città, due mondi che non solo non si somigliano: ma sono completamente impermeabili l’uno all’altro.

E onestamente mi preoccupa più Bruxelles, una certa Bruxelles, che Molenbeek.

Raccontare Molenbeek non è affatto semplice. Sono qui per altre ragioni, sono qui per l’edizione olandese del mio libro su Aleppo, che si legge anche in Belgio, e sono qui solo per una settimana. Una settimana intera!, mi dice più di un caporedattore: Perfetto! – e mi chiedono un reportage: ma per capire Molenbeek ci vogliono mesi. Girare, chiacchierare un po’ con chi capita è del tutto inutile. Si sentono dei sorvegliati speciali: e quindi sorridono, gentili, e ti rispondono che va tutto bene, qui. Non c’è nessun problema. Forse in passato, ma adesso no. Adesso non c’è neppure crisi economica, ti assicurano. Molenbeek è un quartiere come tutti gli altri. Ma capisci subito che in realtà hanno paura di te. Paura non nel senso che potresti essere un poliziotto: paura nel senso di soggezione. E’ come se si sentissero tutti sul banco degli imputati. Tutti sotto processo. E’ come se tu fossi il padrone di casa, arrivato all’improvviso: e vogliono mostrarti che è tutto a posto. Che non hanno rotto niente.

Anche se questa è casa loro. La straniera, qui, sono io.

Perché poi invece appena parli con qualcuno che sa chi sei, che ha letto le tue cose, e si fida, sa che non fraintendi, che conosci il Corano, che non è che se dice Islam tu pensi alle mani mozzate, ti raccontano una Molenbeek opposta: che non ha rapporti con il resto di Bruxelles. E che prima ancora che più povera, si sente inferiore. E d’altra parte: come negarlo? Nessuno dei giornalisti che vogliono intervistarmi per il libro è disposto a intervistarmi in un caffè di Molenbeek. Alcuni sono stati in Yemen, in Iraq, ma non si imbarazzano a dirmi: è pericoloso.

Mi fissano un appuntamento di là dal canale.

Perché di là dal canale inizia un’altra città. Giuro: se non lo vedessi, non ci crederei. C’è un canale, e oltre il canale inizia un’altra Bruxelles, con una strada, tra l’altro, che è anche una delle strade con i negozi più alla moda. E che finisce nella Grand-Place. Ma di qua dal canale, non ci sono luci né vetrine, solo questo mercato che è un mercato di pezze, di dieci paia di calze a tre euro, una vecchia fruga nella spazzatura, esamina un’arancia mezza verde di muffa. Una bottiglia con un fondo di latte. E tra i banchi, ovunque, poliziotti di pattuglia.

Più che poliziotti, secondini.

Di qua dal canale, si segue persino un altro calendario: il giorno di chiusura qui è il venerdì, non la domenica. E allora, all’improvviso, noti tutte le moschee che prima non avevi notato. Perché non hanno cupole, non hanno minareti, sono appartamenti normali: alzi la testa, il venerdì, e al secondo, al terzo piano, ti accorgi che sono tutti in ginocchio verso la Mecca.

Sono tutte sale da preghiera.

Con i televisori tutti sintonizzati su al-Jazeera.

A Molenbeek sono quasi tutti originari di Turchia e Marocco. E in realtà, sono quasi tutti contro lo Stato Islamico. Perché come mi dice il proprietario di un ostello, Mounim al-Moussaoui, il vero stato islamico è in Europa, è il welfare state: uno stato che è al servizio dei suoi cittadini. Perché è questo quello che prescrive il Corano, dice: uno stato giusto. E sono in tanti, qui, a pensarla così. Ma non per questo si oppongono ai jihadisti: perché anche se non condividono le loro idee, anche se non sono dalla loro parte, non sono neppure dalla nostra. L’ostello di Mounim al-Moussaoui è tra i più economici di Bruxelles, e tra i suoi ospiti c’è una signora di una sessantina d’anni, a cui non chiedo molto perché capisco che è andata via di casa ed è in un momento difficile. Pensa chiaramente, e dice chiaramente, che a Molenbeek si sente in mezzo a dei selvaggi. Che ovunque vorrebbe trovarsi, tranne che qui. Perché ai musulmani è stata concessa troppa libertà, dice, e questo è il risultato, uomini che chiudono le mogli in casa, e campano di sussidi con otto figli a testa, e per questo hanno tempo per stronzate come il califfato, dice, perché ciondolano tutto il giorno e campano a scrocco sulle spalle di quelli come lei.

E se questo è quello che molti, a Bruxelles, e non solo a Bruxelles, pensano di te, perché rischiare e sfidare i jihadisti? Non è la tua città.

Non condividi le loro idee: ma stai zitto. Perché rischiare?

Per difendere una società per cui non sei un cittadino, ma un problema?

Bruxelles è la confessione brutale di cosa sono davvero quelle che definiamo con orgoglio “città multietniche”. Solo perché per cena possiamo scegliere tra il sushi e il pollo al curry, e comprare sotto casa una sciarpa di cashmere tibetano: ma la verità è che indigeni e immigrati vivono gli uni accanto agli altri senza mai parlarsi. Senza mai sfiorarsi. Vicini, ma mai insieme.

Con i poliziotti di ronda.

E chi sta al potere, poi, che sta in un’altra città ancora, una città tutta di acciaio e vetro e perfette geometrie. Al riparo dal mondo.

In questo, sì, Bruxelles è veramente la capitale d’Europa.

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