Il confronto è impietoso. Nel gelo delle piazze di Bucarest centinaia di migliaia di manifestanti protestano per giorni contro il blitz legislativo dell’esecutivo a guida socialdemocratica che depenalizza diverse fattispecie di reato per corruzione e abuso di potere – incidentalmente sono le stesse di cui sono imputati il leader e altri esponenti di quel partito, ma si può ipotizzare un consenso bipartisan in una Camera dove il 15 per cento dei deputati risultano inquisiti o condannati.

Negli stessi giorni, al caldo di un’aula del Palazzo di giustizia di Milano, fanno notizia i vuoti nella platea di un convegno ispirato al venticinquennale dell’avvio delle inchieste di “mani pulite” – che ricorre proprio il 17 febbraio: “Adesso c’è desolazione da parte dell’opinione pubblica. Non crede più che possa cambiare qualcosa: e guardo con amarezza quest’aula vuota”, così ha commentato l’ex pm Di Pietro. Le sue considerazioni fanno il paio con quelle di Piercamillo Davigo, altro storico componente del pool, giudice di Cassazione e presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che alla diagnosi aggiunge una precisa imputazione di responsabilità: “L’attività investigativa di Mani Pulite è stata interrotta dalle leggi fatte dalla nostra classe politica. Le leggi sono state fatte a larghissimo spettro ma con delle differenze. Il centrodestra le ha fatte così male che raramente hanno funzionato. Il centrosinistra, invece, le ha fatte mirate e hanno funzionato molto bene”.

A Bucarest, dopo tredici giorni consecutivi di marce e sit-in la pressione delle piazze ricolme di manifestanti induce il governo a ritirare il provvedimento contestato con una frettolosa marcia indietro, mentre il Parlamento unanime fornisce parere favorevole a un referendum per rafforzare la lotta alla corruzione. Nel Parlamento italiano, intanto, i disegni di legge per riformare la prescrizione – principale fonte d’impunità per i “criminali dai colletti bianchi” – e rafforzare la tutela di chi segnala le altrui malefatte languono dimenticati nelle commissioni legislative.

Stagioni diverse, verrebbe da dire, e non soltanto in senso metereologico. Anche l’Italia ha conosciuto momenti di mobilitazione attiva a sostegno dell’azione dei magistrati. Basti pensare alle proteste di piazza che, nelle prime fasi di Mani pulite, impedirono a più riprese i tentati colpi di spugna per la depenalizzazione dell’illecito finanziamento ai partiti, o all’approvazione a larga maggioranza della riforma costituzionale dell’autorizzazione a procedere, sotto la spinta dell’indignazione popolare di fronte all’impunità degli indagati eccellenti. E’ forse la stessa storia che si ripete, per quanto in tempi diversi? E’ già segnato il destino del popolo rumeno oggi in rivolta contro la corruzione nel ripercorrere le tappe della disillusione, del distacco e della rassegnazione già toccate in sorte ai cittadini italiani– sancite magari dal dominio ventennale di un intoccabile pluri-indagato leader politico?

Non necessariamente, per quante analogie si rilevino tra le due vicende. Un tratto comune risiede alla radice del problema. Secondo molti indicatori Italia e Romania sembrano caratterizzate entrambe dalla presenza di un tessuto di corruzione sistemica, ben strutturata attorno ai principali centri di spesa pubblica, ma con diramazioni a ogni livello di vita economica e sociale. Da alcuni anni tra i due paesi c’è un testa a testa nei bassifondi della graduatorie sulla corruzione percepita di Transparency International, fanalini di coda tra i paesi dell’Unione Europea, appaiate due anni fa, mentre nel 2016 la Romania “sale” alla quartultima posizione (57esima nel mondo), contro la terzultima (60esimo nel mondo) italiana.

Purtroppo, in un circolo vizioso, la percezione di una realtà di corruzione endemica semina delegittimazione e sfiducia nelle relazioni politiche e sociali, indebolisce così i canali di potenziale coinvolgimento dei cittadini nella sfera pubblica e dunque anche le ragioni di qualsiasi impegno collettivo nella lotta al malaffare. Al contrario, chi è parte attiva nella pratica “organizzata” della corruzione finisce per operare entro una fitta trama di rapporti disciplinati da regole non scritte, saldate da una fiducia selettiva nell’altrui affidabilità che costituisce il collante invisibile di questa oligarchia criminale. Vanno lette in questa chiave la presenza di garanti, facilitatori e faccendieri di varia natura, ma anche la circolazione di informazioni sull’altrui reputazione o ricattabilità. Questi meccanismi di regolazione e stabilizzazione di una pratica sistemica della corruzione consentono anche di innalzare, ove necessario, barriere protettive di fronte alla sfida di inchieste giudiziarie scomode, rafforzando per via legislativa le speranze di impunità di corrotti e corruttori.

Perché simili manovre abbiano successo la tempistica è però essenziale. Come dimostra la vicenda italiana, le tante leggi “criminogene” segnalate da Piercamillo Davigo sono state approvate nell’indifferenza dei più quando ormai la ruggine della sfiducia e del disincanto aveva corroso le aspettative di un cambiamento politico verso una maggiore integrità nella cura degli interessi collettivi, suscitate da Mani pulite, smobilitando le piazze italiane. C’è forse qualche speranza in più, per quanto esile, nelle strade di Bucarest. I parziali successi fin qui ottenuti dalla pacifica sollevazione popolare contro il malaffare hanno un elevato valore simbolico oltre che pratico, poiché dimostrano ai cittadini la loro reale forza di opposizione al dilagare della corruzione e alla sua obliqua “legittimazione” per via parlamentare. A differenza di quanto accaduto in Italia, questo impegno può ancora diventare il catalizzatore di un processo virtuoso, profondo e duraturo, di rafforzamento incrociato della partecipazione civica “dal basso” e di una risposta politica più credibile e coerente nel proprio impegno anticorruzione.

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