Dopo le donne e la rivolta dell’high-tech, anche gli scienziati sono pronti alla protesta contro il neopresidente Usa Donald Trump. È la prima volta di una “Marcia per la scienza”. L’appuntamento è fissato per il 22 aprile, “Giornata della Terra”. Una scelta simbolica, per protestare contro quello che i promotori definiscono “il negazionismo climatico che minaccia il mondo, e la politicizzazione della scienza, divenuta ormai una questione urgente e cruciale”. L’idea della marcia è partita con un passaparola online, e in pochissimi giorni ha ricevuto numerose adesioni. Il profilo Twitter dell’iniziativa, ad esempio, conta già oltre 310mila follower.

“Governo che ignora la scienza mette in pericolo il mondo”
Gli scienziati si sentono sotto attacco. A preoccupare, le dichiarazioni del nuovo inquilino della Casa Bianca, che ha ad esempio parlato di “ambientalismo fuori controllo”, e i primi passi della nuova amministrazione Usa. A mobilitare i ricercatori è inizialmente la decisione di mettere il bavaglio all’Epa (Environmental protection agency), l’agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, “limitando la possibilità degli scienziati di comunicare i risultati delle loro ricerche”. Una decisione considerata dagli studiosi “assurda, e che non può essere accettata”. Con lo slogan “Science, not silence”, gli organizzatori della marcia per la scienza – tra cui studiosi come Elizabeth Hadly, decana di biologia alla Stanford University, e James Hansen, ex direttore del Goddard institute for space studies della Nasa – lamentano come “un governo americano che ignora la scienza, per perseguire agende ideologiche, metta in pericolo il mondo”. È di pochi giorni fa, ad esempio, la decisione degli studiosi del Bulletin of the atomic scientists di spostare di 30 secondi in avanti il cosiddetto Orologio dell’Apocalisse, proprio all’indomani dell’elezione di Trump, che ha “reso il mondo più pericoloso”.

Ma ad animare ancora di più lo scontento del mondo della scienza si è aggiunto nei giorni scorsi anche il cosiddetto “Muslim ban, che chiude le porte degli Usa ai cittadini provenienti da sette Paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Un ordine esecutivo sulla “protezione della Nazione dall’ingresso di terroristi stranieri negli Usa” che, dall’oggi al domani, ostacola anche la mobilità di molti scienziati. Il provvedimento ha subito sollevato le proteste di università, accademie e prestigiose istituzioni scientifiche. Come la Royal astronomical society britannica, che in una nota ufficiale definisce il divieto “un ostacolo ai ricercatori che vogliano condividere la propria attività con i loro pari, un principio basilare della ricerca scientifica”. Gli scienziati britannici sottolineano, inoltre, come “le restrizioni minaccino di danneggiare la collaborazione tra gli Stati Uniti e i Paesi del resto del mondo”.

Gli scienziati colpiti dal “bando” nel limbo
La scienza, infatti, non conosce barriere, né confini. Eppure, sono molti gli studiosi che in questi giorni, all’indomani dell’ordine esecutivo firmato da Donald Trump, si sono venuti a trovare in una sorta di limbo. Sospesi, come il personaggio interpretato da Tom Hanks nel film “The Terminal”, bloccato in un aeroporto. E posti di fronte a decisioni improvvise e inattese, ad esempio tra la scelta della carriera e quella della famiglia. La rivista Nature ha raccolto le storie di alcuni di loro. Come Kaveh Daneshvar, genetista molecolare di origine iraniana. Invitato a parlare a un meeting di biologia molecolare in Canada in programma tra un mese, un’opportunità importante per la sua carriera, lo studioso non sa se parteciperà. Teme, infatti, una volta lasciati gli Stati Uniti, dove sta completando un postdoc presso l’Harvard Medical School e il Massachusetts General Hospital di Boston, di non potere più rientrare, a causa delle sue origini persiane.

O Ali Shourideh, economista alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in Pennsylvania. Anch’egli iraniano, negli ultimi tempi ha fatto spesso la spola tra gli Usa e l’Iran, dove vive la madre, malata di cancro. Ma, adesso, la sua “green card” potrebbe non essergli più sufficiente a rientrare negli Usa. “Sono sempre stato convinto che questo fosse un Paese libero – lamenta l’economista iraniano, intervistato da Nature -. E che, una volta immigrato, non ti avrebbero cacciato via, o reso la vita difficile. Ora, invece – afferma amaramente Shourideh -, mi trovo a dover scegliere tra vedere mia madre o mantenere il mio lavoro”.

Il dilemma se optare per il lavoro o la famiglia tormenta anche l’italiano Luca Freschi, che si occupa di genetica dei microrganismi presso la Laval University, in Quebec. Ha già pianificato di lasciare il Canada per gli Usa, a marzo, per una posizione alla Harvard Medical School. Ma la moglie è iraniana, e questo complica notevolmente le cose. “Tutto ciò è folle. Sia io che mia moglie abbiamo ricevuto i visti due giorni prima della firma dell’ordine esecutivo”, sottolinea lo scienziato italiano su Nature. Secondo la prestigiosa rivista scientifica, inoltre, l’ordine esecutivo di Trump potrebbe anche “indebolire il contrasto internazionale alle malattie infettive, che non rispettano confini, leggi o muri”.

La petizione contro il Muslim Ban
Contro il “Muslim Ban” di Trump si sono mobilitati anche più di 12mila ricercatori di accademie Usa, tra cui 40 premi Nobel e 6 vincitori di Medaglie Fields, firmando una petizione per chiedere al neopresidente Usa un ripensamento sul suo ordine esecutivo. “Un provvedimento discriminatorio – si legge nella petizione – contrario ai principi fondanti degli Stati Uniti”, che rischia di “danneggiare la leadership americana nei campi dell’educazione e della ricerca”, e che potrebbe “trasformarsi in una messa al bando permanente”. C’è da giurare che molti dei firmatari di questa petizione saranno in prima fila nella prima marcia degli scienziati, nel giorno dedicato alla salute del Pianeta.

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