Il recente caso Mediaworld – ovvero la “corsa di san Volantino”, per cui se acquisti alcuni prodotti in offerta puoi essere sorteggiato per cento secondi di shopping interamente gratuito, a patto che di essere maggiorenni e in coppie di persone di sesso opposto –permette di fare alcune riflessioni sullo stato dell’arte della politica Lgbt nel nostro Paese e sulla percezione che la gay community dimostra di avere di sé. Ma andiamo per ordine. Anzi, a ritroso.

Anni fa scoppiò il caso Barilla, che mai avrebbe fatto una campagna pubblicitaria con/per persone omosessuali. La rete si indignò moltissimo e Guido Barilla fu costretto a scusarsi per le sue dichiarazioni. Sia ben chiaro: qualsiasi azienda è libera di scegliersi il target che più ritiene idoneo. La famosa marca di pasta aveva, perciò, tutta la libertà di decidere di vendere solo a “famiglie tradizionali”. Per la legge del mercato, tuttavia, quella parte di società esclusa aveva ugualmente il diritto di non comprare e di invitare a non farlo. Si chiama boicottaggio ed è una pratica prevista in caso di discriminazioni.

Poiché la clientela Lgbt sembra rappresentare una voce interessante per le aziende, queste stesse si mostrano molto attente a includerla nelle loro politiche aziendali. Avere due clienti è sempre meglio di uno solo. Anche perché se vendi a un papà arcobaleno, il padre di famiglia continuerà a comprare lo stesso, a meno che non legga libri che inducono le donne a sposarsi e sottomettersi (e lì il problema è di ben altra natura, converrete). Quando anche il mercato americano fece capire che gay, lesbiche e trans non avrebbero più comprato spaghetti e pan di stelle, si fece marcia indietro. Il caso, insomma, fu emblematico. Anche di come la comunità italiana, praticamente incapace di organizzarsi politicamente, è però abilissima a far casino sui social. Poco, ma meglio di niente, direbbe qualcuno.

Vennero dunque altri episodi, a cominciare da quello della catena Uci Cinemas. Qui non si trattava di non prevedere certa clientela, ma di insultarla. Proiettando, tra gli spot, quello contro la gestazione per altri, ridotta a “utero in affitto”. Eredità lasciataci dall’iter sulla legge per le unioni civili, che ha confuso (volutamente) il piano dei diritti matrimoniali, l’adozione della prole del partner e casi particolari – per altro in paesi in cui è vietato ai gay accedere alla surrogacy – in cui la gravidanza per altri passa dallo sfruttamento e dalla compravendita dell’infante. Giustamente, la madre di una ragazza lesbica o la coppia omogenitoriale avevano tutto il diritto di decidere di non andare in un luogo in cui si appiattivano situazioni e persone nell’ambito del traffico di esseri umani. E basterebbe sapere cos’è la Gestazione per altri (Gpa), quando si fanno certi paragoni, per capire che è come mettere sullo stesso piano donazione e traffico illegale degli organi. Ma tant’è.

Quindi arriviamo alla querelle su Mediaworld, che contrariamente al caso Barilla ha una data di riferimento di non poco conto: l’11 maggio 2016, data nella quale le unioni civili sono diventate legge. Quel giorno, infatti, segna un prima e un poi. Prima, a parer mio, era legittimo indignarsi. Adesso risulta un po’ più difficile. Perché quella campagna persegue la stessa filosofia della questione Lgbt così com’è stata affrontata dalla classe politica italiana: non il recupero di un gap, ma il tentativo di creare una differenza tra maggioranza eterosessuale e minoranze sessuali. Partiamo con una domanda: se con la promozione avessero previsto – per questioni puramente economiche – che potevano partecipare solo persone sposate o in procinto di farlo, cosa avremmo potuto farne del nostro sdegno? Perché, in altri termini, contestare a un’azienda privata ciò che lo Stato ha reso legge per tutti/e, cioè differenziare istituti e accesso ai diritti per orientamento sessuale?

Ovviamente, le discriminazioni sono sempre odiose e a parer mio Mediaworld ha fatto un clamoroso errore, anche in termini di target (pare che i gay spendano di più). Ma se discriminare è odioso, lo è sempre. Non solo quando quel discrimine non rientra nei nostri interessi del momento. Ricordo, a tale proposito, il già citato adagio “poco è meglio di nulla”. Quando si è visto che, a volte, il poco e il nulla coincidono. Come, a livello di cultura di massa, in questo caso. A livello politico quest’aspetto forse non è ancora poco chiaro, dentro la nostra comunità. Però a far casino sui social siamo ancora i numeri uno, a quanto sembra.

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