Dicono gli inglesi: “A camel is a horse made by a committee” (un cammello è un cavallo disegnato da un comitato). Il cammello, animale utile e robusto, somiglia al cavallo, ma solo alla lontana. Così, se un gruppo di lavoro nello stilare un documento congiunto si sforza di accogliere troppi spunti diversi, può anche produrre un testo gibboso. Qualcosa del genere dev’essere accaduto nella stesura del Decreto legislativo n. 382 del 13 gennaio 2017, recante “Norme sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività” nella scuola italiana.

Intento ottimo. Ma leggiamo l’art. 1 comma 3: “Per assicurare agli alunni e agli studenti l’acquisizione delle competenze relative sia alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del ‘Made in Italy’, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività degli alunni e degli studenti, anche connessa alla sfera estetica e della conoscenza storica, tramite un’ampia varietà di forme artistiche, tra cui la musica, le arti dello spettacolo, le arti visive, sia nelle forme tradizionali che in quelle innovative”. Il cammello è venuto bulimico e sbilenco.

Fuor di metafora: il testo affastella concetti che, singolarmente presi, suonano lodevoli, ma sono eterogenei. La “conoscenza del patrimonio culturale” implica il rapporto fra un soggetto e un oggetto; il “valore del Made in Italy” è un dato merceologico; la creatività è tutt’altra cosa ancora, e di sicuro non coincide con lo spontaneismo. Il legislatore intende che per conoscere Petrarca, Verdi, Michelangelo (tutti Made in Italy come il Sangiovese e il Gorgonzola) occorre essere creativi? Ossia praticare la “scrittura creativa”, saper cantare “Va’ pensiero”, plasmarsi una propria Pietà Rondanini? La sintassi è avventurosa: non si coglie il prima e il dopo; la coda del cammello è slegata dal corpo. Cosa s’intende con “lo sviluppo della creatività, anche connessa alla sfera estetica e della conoscenza storica”? Che per sviluppare la creatività occorre conoscere le forme storiche delle arti? Sacrosanto. Ma il decreto, per com’è formulato, lo consente?

Per la musica non ricorre mai il sintagma “storia della musica” (mentre è prevista, art. 3, la “conoscenza della storia dell’arte”). Sembra che, per l’arte dei suoni, alla ministra importi solo il far musica, la “pratica musicale”. La Fedeli pensa che la storia della musica sia il raccontino nozionistico, i 20 figli di Bach, la sordità di Beethoven, gli amori di Madonna (la pop star)? Vorrei tranquillizzarla: non è così. La storia della musica si occupa di “oggetti di conoscenza”, antichi o contemporanei, radicati nella storia e nella cultura: vi si accede mediante l’ascolto riflessivo. Se da un lato in musica c’è il “fare” – cantare o suonare uno strumento – dall’altro non può non esserci “il conoscere”. La formazione musicale si alimenta di entrambi e deve puntare alla “comprensione musicale”: focalizzare il brano, coglierne la struttura, riferirlo al contesto di produzione e fruizione, comprenderne le funzioni, intuirne le relazioni con gli altri saperi, scoprirne il senso.

Non è tutta colpa della ministra. In fondo, se insiste sulla “pratica musicale” e scorda la “Storia della Musica”, è in buona compagnia. Gli intellettuali italiani – molti musicalmente analfabeti – alimentano da sempre il luogo comune che la musica è un linguaggio riservato a chi “la fa”. Un esempio illustre. Nel 1997 il Ministero della Pubblica Istruzione istituì una commissione di ‘saggi’ per individuare “le conoscenze fondamentali” sulle quali fondare “l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni”. Orbene, il compianto, esimio linguista Tullio de Mauro (poi ministro), in un intervento verbalizzato, sentenziò: “Guai se il cinema entra nella scuola come manuale di storia del cinema: se entra, deve entrare come pratica operativa; lo stesso ragionamento vale per la musica”. In altre parole: forgiamo un popolo di chitarristi e di cinematografari della domenica. Il Parlamento, prima che il disegno legislativo e venga approvato, dica al governo che gli scopi dichiarati nel titolo non si raggiungono ignorando la “Storia della musica”.

Infine. Il disegno legislativo assegna un ruolo alle Istituzioni dell’alta formazione artistica e musicale (Afam). Non cita quello spettante alle università. Non mi dite, cari lettori, che la ministra non menziona l’Università perché priva di laurea. Tanti ministri prima di lei si sono comportati così.

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