“Mi riconoscerà perché avrò con me una busta della Camera dei deputati”. Questo disse un uomo che si qualificò come appartenente alla segreteria di Valeria Valente, candidata sindaco del Pd alle scorse elezioni comunali di Napoli, all’avvocatessa Donatella Biondi, una dei nove candidati a loro insaputa nelle liste della competizione, sette dei quali nella civica ‘Napoli Vale. La professionista aveva contattato la segreteria della Valente per avere spiegazioni in merito alla sua presenza nella lista, nonostante non avesse mai avuto intenzione di partecipare alla competizione elettorale. Quell’uomo spiegazioni non gliene diede, ma in cambio le chiese di firmare un modulo nel quale dichiarava di non aver sostenuto spese elettorali. Praticamente ammettendo (e mentendo) di essersi candidata. Quell’episodio ora diventa cruciale per comprendere cosa ci sia dietro lo scandalo dei candidati a loro insaputa di Napoli.

IL RACCONTO DELL’AVVOCATESSA – Intervistata da Il Mattino e da La Repubblica, Donatella Biondi ha raccontato che, le prime segnalazioni, le erano già arrivate durante la campagna elettorale. “Durante le elezioni – ha dichiarato – sono stata contattata da un paio di miei amici avvocati che avevano letto il mio nome nelle liste e mi chiedevano se ero effettivamente tra i candidati”. In quella circostanza, però, l’avvocatessa pensò a un caso di omonimia. Solo dopo mesi le è poi arrivata la richiesta di rendicontazione della sezione elettorale della Corte d’Appello. Un adempimento da compiere entro 15 giorni che, se non ottemperato, può portare a sanzioni che arrivano a 100mila euro. Così, la donna si è ricordata della segnalazione dei colleghi e ha confrontato su internet la sua data di nascita con quella della candidata. Era la stessa. Era lei, ma non si spiegava come potesse essere accaduto, visto che non ha mai partecipato a una riunione a un qualsiasi incontro e certamente non aveva mai dato la sua disponibilità. A quel punto Donatella Biondi ha agito su due fronti. In primis ha contattato la segreteria di Valeria Valente e si è sentita rispondere che l’avrebbero contattata, ma dopo qualche giorno si è recata alla Corte d’Appello per dichiarare che lei non aveva spese da rendicontare, semplicemente perché non si era mai candidata.

L’INCONTRO CON L’UOMO MISTERIOSO – L’avvocatessa non è stata ancora ascoltata dagli inquirenti, ma a loro racconterà di un incontro che potrebbe fornire più di un indizio su cosa ci sia dietro l’inchiesta ribattezzata come ‘Listopoli’. “Quando mi hanno contattata dalla segreteria di Valeria Valente – ha spiegato – ho parlato con un uomo che mi ha dato appuntamento in strada, in piazza Municipio”. L’incontro è durato una decina di minuti. L’avvocato non ha chiesto il nome dell’uomo, né saprebbe riconoscerlo visto che si è presentato all’incontro con tanto di “occhiali grandi da sole e cappello”. In quella circostanza la donna ha chiesto più volte come fosse possibile che il suo nome comparisse nella lista dei candidati e, di tutta risposta, l’uomo le ha assicurato che le avrebbero fatto sapere. Fu proprio durante quel fugace incontro che l’uomo le chiese di firmare un modulo già compilato contenuto in una busta della Camera dei deputati, attraverso il quale l’avvocatessa avrebbe dovuto dichiarare di non aver sostenuto spese per la campagna elettorale. Un modulo destinato al comitato di garanzia elettorale della Corte d’appello. “Per me si trattava di firmare il falso, così mi rifiutai. D’altro canto mi ero già mossa segnalando l’anomalia alla Corte D’Appello” ha raccontato Donatella Biondi. Che, ad oggi, resta l’unica a cui fu chiesto di compilare quel modulo. Forse perché fu l’unica a contattare la segreteria della candidata del Pd. O forse questa vicenda riserva altre sorprese.

La Repubblica tradita

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