Nel fine settimana in cui il film quattordici-volte-nominato-agli-Oscar La La Land, appena uscito, porta a casa oltre due milioni di euro grazie alle sue trecentosettantotto copie, e in cui L’ora legale della coppia Ficarra-Picone incassa ancora due milioni e quattrocentomila euro con le sue seicento copie, c’è un piccolo film, Les ogres (Gli orchi) di Lea Fehner, che incassa appena duemila euro, essendo stato distribuito in sole sei (6) copie. Che gli occhi e i portafogli fossero puntati principalmente su La La Land, intelligente musical che gioca con la tradizione riprendendo ironicamente tutti gli stereotipi dell’età dell’oro del genere, quella di Cantando sotto la pioggia o di Un americano a Parigi, era scontato. E che L’ora legale resistesse alla seconda settimana era prevedibile.

Il problema non è questo. Il problema è invece quello di una sperequazione che è la spia di un mercato sostanzialmente immaturo. Nello scorso fine settimana 13 film si sono accaparrati oltre quattromila schermi, cioè oltre l’80% del totale dell’offerta italiana. Ciò vuol dire che ci sono città intere, neanche piccole, in cui era di fatto impossibile andare al cinema per vedere qualcosa che non fosse uno dei suddetti tredici film.

In un mercato bloccato, anche il circuito dei discorsi resta bloccato: chi parlerà mai di un film invisibile? Les ogres – che peraltro è un buon film, un po’ pazzo nel raccontare la vita scombinata di una troupe teatrale che si muove al modo delle famiglie circensi, con la vita in roulotte, l’equilibrio perennemente precario, gli spettacoli fatti un po’ di Cechov e un po’ di attrazioni, e uno stile vagamente felliniano – a Milano è uscito in una sala da 30 posti, a Bologna, Firenze e Napoli non è uscito. Dunque parlare del film sarebbe stato come parlare di un Ufo, e l’emarginazione distributiva condiziona anche – magari a torto – la presenza mediatica. Eppure il film aveva vinto due premi alla scorsa edizione della Mostra di Pesaro, storico Festival che in oltre cinquant’anni di gloriosa carriera ha fatto conoscere al pubblico italiano fior di cineasti.

Ciò che questo piccolo esempio segnala è che da una parte c’è un pubblico – certamente non solo quello dei Festival – che chiede al sistema-cinema la capacità di offrire un prodotto variegato, non omologato sui gusti standardizzati indotti da un mix di abitudine, marketing e pigrizia, dall’altra parte c’è una struttura della distribuzione troppo passiva. Per non rischiare nulla si ingolfa il mercato con pochi titoli, lasciando al resto dell’offerta le briciole.

Accade al mercato ciò che è accaduto alla formazione universitaria negli ultimi disgraziati vent’anni: si è inondata l’offerta di manuali, che per natura tendono a livellare e canonizzare il sapere senza chiedere troppa fatica ai loro lettori, e si sono disabituati i ragazzi a pensare che il piacere (e il vantaggio) della cultura è quello della scoperta della diversità. Sul piano del mercato cinematografico siamo cioè come eravamo sul piano alimentare sessant’anni fa o sul piano politico trent’anni fa: pochi prodotti disponibili, per una cucina tradizionale e senza sorprese. Basta confrontare l’offerta di Parigi con quella di Milano o di Roma per rendersi conto dell’abisso culturale che ci separa da una condizione di maturità. Anche in Francia ci sono le majors che condizionano il mercato, anche lì le uscite maggiori inondano gli schermi, ma gli spazi per praticare la differenza non mancano, il cinema è una buona pratica quotidiana.

Se la crescita di un paese passa anche dall’abitudine alla differenza, e dunque alla tolleranza, forse il piccolo recinto di un mercato cinematografico più adulto potrebbe essere una palestra per abituarci a una cultura della diversità.

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