La legge n. 54 dell’8 febbraio 2006 è stata o non è stata recepita dai tribunali italiani? È riuscita a sancire l’uguaglianza di diritti e doveri tra i coniugi e nelle relazioni con i figli? E ancora, il principio di bigenitorialità – vera e propria architrave della norma – ha trovato o non ha trovato la giusta collocazione nella coscienza collettiva? Ha prodotto quel cambiamento che tanti auspicavano oppure si tratta dell’ennesima “legge miraggio” che non regolamenta realmente il problema?

Sono queste le domande che, a oltre dieci anni dall’approvazione della legge sull’affidamento condiviso, rimbalzano nella testa di tanti cittadini separati (perlopiù padri). E allora vale la pena di fare un rapido bilancio della situazione.

Fino al 2005 funzionava pressappoco così: l’affidamento esclusivo dei figli alla madre era prassi e il calendario di visita previsto per il genitore non affidatario minimo. Risultato? Dal momento che la potestà genitoriale (oggi responsabilità) spettava unicamente al genitore affidatario (ovvero la madre), i padri erano di fatto estromessi dalla vita quotidiana dei figli e di conseguenza anche dalle decisioni che li riguardavano.

Poi, nel 2006, il legislatore cambia tutto e l’affidamento condiviso diventa oggetto di “valutazione prioritaria”, relegando l’applicazione della precedente disciplina a ipotesi rare ed eccezionali. Secondo le ultime rilevazioni Istat, in Italia le separazioni sono state 91.706, con un trend di crescita più che raddoppiato (da 158 ogni 1.000 matrimoni nel 1995 a 340 nel 2015). Il 53,6% dei procedimenti coinvolge coppie con figli. E qui arriviamo all’applicazione, quasi a tappeto, dell’affidamento condiviso, previsto nell’89% circa dei casi. In pratica, legge totalmente sdoganata dai tribunali, che la applicano massivamente.

Eppure qualcosa non torna… Perché se il quadro formale è ineccepibile, quello sostanziale legato alla corretta applicazione della norma risente di retaggi culturali che, seppur sempre più anacronistici, storicamente il nostro Paese si porta dietro (su tutti quello di “naturalizzare” il genere, attribuendo alla donna tutta una serie di virtù che la renderebbero più adatta dell’uomo a occuparsi di casa e figli). Permane, per esempio, del tutto palese, una sostanziale “fatica” del sistema (degli operatori giuridici in genere e dei giudici in particolare) a recepire pienamente l’innovazione del provvedimento. La prassi giurisprudenziale ha trovato infatti gli escamotage per mantenere la quasi totalità delle separazioni in una condizione ante riforma. Non si parla più di “genitore affidatario”, ma di “genitore collocatario”. Si tratta ancora, in prevalenza, della madre, che trascorre con i figli la maggior parte del tempo, resta nella casa familiare e assume autonomamente tutte le decisioni. Va da sé che con tale impostazione la stragrande maggioranza delle sentenze rispolveri il vecchio, risicato diritto di visita del padre, continuando a disporre a suo carico un assegno di mantenimento per i figli che nella ratio della legge avrebbe dovuto restare residuale ed esclusivamente perequativo.

Potremmo allora certamente dire che l’affidamento condiviso è rimasto sulla carta e che quella grande rivoluzione culturale, rappresentata dall’affermazione del principio di bigenitorialità come valore da difendere, non si è ancora compiuta. Con un po’ di obiettività dovremmo però anche ammettere che forse non era plausibile ipotizzare che un cambiamento di tale portata potesse realizzarsi in un solo decennio. Già nel 1748, infatti, Montesquieu spiegava che “quando si vogliono cambiare i costumi di una società e modificarne i comportamenti, non ci si deve illudere: le leggi sono necessarie, ma mai sufficienti. Affinché la legislazione possa avere un impatto sulla società, dev’essere sempre accompagnata da numerose azioni sociali”.

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