E’ stata la contro-inaugurazione. O meglio, è stata la vera inaugurazione di quattro anni che per l’America si presentano difficili, conflittuali, pieni di incognite. Migliaia di persone – almeno 500 mila secondo le prime stime – si sono riversate per le strade di Washington D.C. Altre migliaia hanno manifestato in decine di città americane – la folla più numerosa a Boston, New York, Chicago e Los Angeles – e in molte capitali del mondo: Sidney, Berlino, Londra, Parigi, Cape Town, Nairobi; in Italia Roma, Milano e Firenze. La “Women’s March on Washington” è stata, alla fine, qualcosa di più di una semplice espressione di protesta verso il nuovo presidente. E’ stato un modo per contarsi, per far sapere alla Casa Bianca e alla politica che una buona parte di questo Paese – la maggioranza – non approva e non accetta il corso che stanno prendendo le cose.

Washington è apparsa bloccata già al mattino presto. La metropolitana non ha retto all’impatto della folla arrivata un po’ da tutti gli Stati Uniti: dalla Florida e dall’Alaska, dalla California e dal Tennessee, dalle Hawaii e dal Texas; anche dal Messico e dal Canada. Diverse fermate della metro sono state chiuse; in migliaia hanno camminato, per chilometri, nelle strade attorno al Campidoglio, al Washington Monument, al National Mall e alla Casa Bianca. Il concentramento della manifestazione doveva essere all’incrocio tra Independence Avenue e la Third Street, ma ben presto ogni riferimento è saltato e la folla si è allargata a macchia d’olio per tutto il centro, cantando, ballando, urlando slogan.

Molti, donne e uomini, indossavano il pussy hat, berretto rosa simbolo dei diritti delle donne. Quasi tutti innalzavano cartelli con un’incredibile varietà di slogan e sigle. Tra questi: “Il mio corpo. La Mia scelta. Il mio Paese”. “Love is Power”. “Non mi faccio afferrare per la vagina”. “Combatti come una ragazza”. “La mia volontà è più forte del tuo odio”. “Trump, ti sopravviveremo”. “Attenzione agli uomini che fanno di se stessi un monumento”. “Siamo più forti della paura”.”Bullo. Razzista. Ignorante. Egomaniaco. Misogino. Pallone gonfiato. Trump non è il mio presidente”. “La sanità è un diritto, non un privilegio”. “Un’America grande non è razzista, sessista, xenofobica”. “Rispetto. Dignità. Giustizia per tutti”. “Putin ha vinto. L’America ha perso”.

L’idea della manifestazione è partita da un’avvocatessa in pensione delle Hawaii, ma è presto diventata qualcosa di più vasto e complesso. Se il tema dei diritti riproduttivi e delle donne è rimasto il cuore della protesta – Trump ha detto di essere personalmente contrario all’aborto e in campagna elettorale ha chiesto di abolire la Roe v Wade, in modo che l’interruzione di gravidanza torni di competenza degli Stati -, la marcia delle donne ha finito per allargarsi a tante sigle, gruppi, settori della società e della politica americana. Hanno sfilato gruppi ambientalisti, anti-razzisti, omosessuali e transgender, i sindacati, le associazioni che si battono per la riforma giudiziaria, contro la povertà, per l’istruzione pubblica, per la libertà di stampa. Soprattutto, hanno sfilato migliaia di persone senza sigle e senza un passato o un presente di militanza politica: famiglie, scolaresche, migranti, coppie omosessuali, neri, ispanici, uomini e donne che hanno mostrato la propria cartella sanitaria e chiesto che la loro assistanza sanitaria non venga cancellata.

Sul palco, prima della partenza del corteo, si sono succeduti una serie di speaker. Ha parlato Michael Moore, che ha chiesto ai manifestanti di “telefonare al Congresso ogni giorno. Ogni giorno. Ed ecco il numero: 202-225-3121”, ha scandito, con la folla che ripeteva i numeri. Moore, riprendendo una frase del discorso dell’Inaugurazione di Trump, ha detto: “Noi siamo qui per mettere fine alla carneficina di Trump”. Hanno parlato attrici come Scarlett Johansson (che si è lanciata in una difesa appassionata di Planned Parenthood, l’associazione che difende i diritti riproduttivi delle donne) e Ashley Judd, che ha intonato una sorta di rap che ha infiammato la folla: “Percepisco Hitler tra queste strade. Dei baffi scambiati per un toupé, un nazista rinominato… ma io non sono così nasty, cattiva, come il razzismo, la supremazia bianca, la misoginia, l’ignoranza”. Nasty è stato l’epiteto lanciato da Donald Trump contro Hillary Clinton durante un dibattito televisivo.

I network collegati in diretta hanno invece tagliato il collegamento con Madonna, che si è lanciata in volgarità dopo aver affermato: “E’ l’inizio della nostra storia: la rivoluzione parte da qui. Noi non abbiamo paura”.

Hanno parlato politici come la senatrice della California Kamala Harris, che ha detto: “Siamo in un momento fondamentale della nostra storia, come quando i miei genitori si incontrarono a Berkeley negli anni Sessanta”. Ha parlato una femminista come Gloria Steinem, che ha raccontato di aver parlato con chi ha marciato a Berlino: “Ci hanno mandato un messaggio: i muri non sono mai una buona cosa”, aggiungendo poi: “Trump dice di essere a favore del popolo… Io ho conosciuto il popolo e tu, presidente, non fai parte di loro”. Ha parlato anche una senatrice dell’Illinois, Tammy Duckworth, che ha perso entrambe la gambe in Iraq. “Non ho versato il mio sangue per questo Paese, non ho dato parti del mio corpo perché la Costituzione venga fatta a pezzi”.

Alla fine la folla è stata così numerosa, così difficile da controllare nel suo snodarsi, che il corteo si è rotto in tanti rivoli diversi attorno a Constitution Avenue. In molti si sono comunque diretti verso la Casa Bianca. Altri hanno riempito caffè, alberghi, si sono seduti sui marciapiedi, nei parchi, guardando il fiume di persone sfilare e continuando a urlare slogan e a cantare. E’ sembrato, alla fine, come se la rabbia e lo sdegno accumulati da una parte considente d’America verso il presidente eletto siano improvvisamente esplosi in una sorta di grido collettivo e liberatorio. Tra l’altro, proprio nelle ore in cui la gente sfilava, Trump prendeva le sue prime decisioni: in particolare, un ordine esecutivo che mira a “sollevare le agenzie federali del peso dell’Obamacare”.

In migliaia gli hanno dunque risposto che questa politica non è gradita. Mentre su Washington scendeva la sera, mentre si concludeva il secondo giorno di presidenza di Donald Trump, una cosa è risultata chiara. Siamo soltanto all’inizio di quattro anni tra i più duri e combattivi della storia americana.

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