di Claudia De Martino * 

La storia della nascita di Israele è legata intrinsecamente ad un conflitto: appena lo Stato vide la luce e si dichiarò indipendente dopo un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite e la fine del mandato britannico (14 maggio 1948), i Paesi arabi limitrofi attaccarono il giovane Paese ebraico su tutti i fronti per “cancellarlo dalle mappe” o, forse, per riprendersi almeno parte del territorio che il piano di spartizione Unscop aveva, a loro parere, ingiustamente assegnato ad un gruppo nazionale estraneo alla regione (“gli arrivati dall’Europa”, come li definisce giustamente il grande intellettuale palestinese Edward Said nel suo celebre La questione palestinese, 1979).

In un saggio di alcuni anni fa (2007), Furio Colombo, giornalista e presidente dell’associazione “Sinistra per Israele”, scrisse che nel 1948 Israele “ha realizzato un proprio sogno risorgimentale (detto “sionismo” o “ritorno alla terra degli ebrei”) ma ha preso possesso di una parte di terra solo dopo un voto alle Nazioni Unite e non ha tolto terra di un altro Stato più di quanto l’India o il Pakistan l’abbiano tolta all’Impero britannico”. Prosegue affermando che ogni nazione si costituisce in Stato tramite un atto di conquista (la presa di un territorio) e la ricerca di un riconoscimento internazionale – punti sui quali è impossibile dissentire – e che l’unica differenza tra Israele, India e Pakistan è che lo Stato palestinese che avrebbe dovuto sorgergli accanto “non ha mai accettato di esistere, o non gli è stato permesso dalle potenze arabe dell’area”. Da quel momento in poi si sarebbe originato l’annoso conflitto israelo-palestinese che si trascina fino ai nostri giorni.

Che la Palestina “non abbia mai accettato di esistere” mi sembra un’affermazione discutibile e fin troppo perentoria: tutt’al più, si potrebbe dire che Israele si sia costituito in Stato-nazione ben prima che gli arabi della Palestina mandataria si dessero questo assetto moderno, che purtroppo in una comunità internazionale a guida occidentale divenne, dopo la Seconda guerra mondiale, premessa indispensabile all’autodeterminazione ed al suo riconoscimento internazionale.

Tuttavia, oggi molti studiosi israeliani, inclusi quelli appartenenti o vicini all’establishment, riconoscono presente da sempre nel sionismo un elemento tragico: la compresenza di elementi progressisti, moderni, socialisti e democratici e di una spiccata tendenza alla rimozione di stampo culturale orientalista. Come racconta il grande giornalista israeliano Ari Shavit, il grosso equivoco alla base del sionismo è che gli ebrei che emigrarono in Palestina per costruire un proprio Stato non volevano assolutamente riprodurre il colonialismo europeo ed aspiravano sinceramente alla libertà, attraverso la rivendicazione di una sovranità di cui per secoli erano stati privati e che per loro significava l’unica garanzia contro l’endemico antisemitismo dominante in Europa – un fenomeno che periodicamente mieteva nuove vittime e da lì a poco avrebbe finito per trucidare sei milioni di ebrei nell’indifferenza della maggior parte dei loro concittadini -, ma immigrando in Palestina senza considerare gli arabi partner del loro progetto, finirono per diventare a loro volta un’altra variante di colonizzatori.

E’ questa quella che Shavit definisce la “tragedia intrinseca al sionismo”: il fatto di non aver saputo vedere non solo che la terra fosse già abitata da un’altra popolazione – per quanto non ancora autodefinita come nazione -, ma che un conflitto inevitabile avrebbe opposto l’uno e l’altro gruppo per generazioni. Un conflitto che, ancora oggi, non trova soluzione.

Di questo si parlerà alla terza lezione di storia del Mediterraneo al via domenica prossima presso il cinema Farnese di Roma, che verterà appunto sul conflitto arabo-israeliano, ripercorso attraverso spunti, riflessioni e suggestioni accompagnate da una ricostruzione cronologica degli eventi più marcanti, per rispolverare la memoria del pubblico su quelli che sono stati gli snodi di una storia che vede il difficile rapporto tra palestinesi ed israeliani all’interno un contesto regionale complesso come il Medio Oriente, dove ogni nuova guerra alimenta attriti e crisi che ricadono sulle generazioni future, trascinandole in altre guerre.

La lezione fa parte di un ciclo di sette eventi gratuiti dedicati alla storia del Mediterraneo organizzati da Unimed, Cinema Farnese Persol, la casa editrice Castelvecchi, la libreria Fahrenheit e il Fatto Quotidiano in qualità di media partner con l’obiettivo di permettere alla parte più curiosa del pubblico romano di accostarsi a importanti questioni aperte sulla storia che caratterizzano lo sguardo che la società italiana porta oggi al Mediterraneo.

Il conflitto israelo-palestinese che verrà affrontato domenica prossima non è certo la questione più urgente e scottante al momento in Medio Oriente sull’agenda europea-ben altre si profilano come più pressanti e meritevoli di attenzione, tra cui i massicci flussi migratori in provenienza dalla Siria, l’accordo con la Turchia, la minaccia ancora costituita dall’Isis, la destabilizzazione della limitrofa Libia e l’accordo sul nucleare iraniano -, tuttavia questo annoso conflitto rimane oggetto di particolare interesse europeo – a volte quasi morboso – per il ruolo simbolico che riveste la “Palestina” nell’immaginario e nella cultura europei.

Al centro del dibattito vi sarà la soluzione dei due Stati proposta dall’amministrazione Obama uscente e la possibilità o meno di considerarla ancora percorribile, l’analisi di Oslo e dei negoziati di pace, la lotta demografica in corso tra ebrei e arabi nella Palestina mandataria, ma anche l’annuncio di una politica più aggressiva da parte di Trump e l’impasse in cui versa l’Autorità nazionale palestinese.

Per discuterne insieme, vi aspettiamo al cinema Farnese Persol, Roma, Piazza Campo de’ Fiori, domenica 22 gennaio alle ore 11.00, ricordando a tutti che l’ingresso è libero e gratuito fino ad esaurimento posti.

* ricercatrice Unimed ed esperta di questioni mediorientali

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