Stefano Cucchi viveva nella mia borgata, quella dove sono nato e vivo ancora. È stato arrestato all’Appio Claudio dove porto i bambini a fare i giri in bicicletta, nel quartiere dove è cresciuto mio padre, dove c’è il mercato coperto e una vecchia che vendeva la frutta strillava “mandarini!” con una voce che sembrava uscire da un enorme imbuto di ferro. Ma pure la pizza bianca c’era, quella rossa e quella con la mortadella. Io volevo quella con la mortadella da ragazzino.

“Quando si muore si muore soli” cantava De André mezzo secolo fa. E Stefano è morto solo. Se accanto a lui c’era qualcuno è molto probabile che non l’abbia aiutato. Almeno non l’ha aiutato a vivere.

Lo so che non conta molto che io e Stefano ci siamo incontrati al bar e ignorati ognuno davanti al proprio caffè, che abbiamo comprato il pane allo stesso banco del mercato coperto o abbiamo attraversato la stessa strada nella stessa giornata. Lo so e tantomeno conta pensare che oggi avremmo quasi la stessa età. Ma prendetelo come un gioco. Invece di allontanarle da noi, cerchiamo di avvicinarcele queste storie. Cominciamo a pensare che al posto di Stefano potevo starci io. Io al posto di Aldo Bianzino e mio figlio al posto di Federico Aldrovandi. Io al posto di Giuseppe Uva e mio padre al posto di Michele Ferulli. Eccetera. Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì. E che, forse, quella gente se le va a cercare certe rogne.

No. Un esercizio di civiltà è sentirsi come lui. Pensarsi dove lui passava le giornate. Lui e tutti gli altri che vengono raccontati come “strani”, “diversi”, “mostri”. Anche io mi ci sento un po’ strano e pure diverso. Ma poi ho tutta una vita da condividere con gli altri e non ce la faccio a pensare che la morte di Stefano riguardi solo lui. Questo è un gioco sporco che facevano i nazisti quando chiamavano “pezzi” gli internati nei campi. Lo hanno fatto gli hutu che in Rwanda hanno massacrato un milione di tutsi: li chiamavano scarafaggi. Non sarebbero stati in grado di uccidere un milione di persone come loro, ma pensarli come un milione di scarafaggi li ha aiutati!

Qui ci sarebbe da aprire un discorso complicato: come è possibile che degli esseri umani come Stefano, come me, come tutti noi lo abbiano abbandonato e fatto morire?
Dentro questo discorso ci dovremmo mettere i processi, la disciplina e le regole (scritte e non scritte) delle persone in divisa e degli uomini che prendono decisioni importanti nei tribunali, l’antropologia… Un discorso troppo complicato per me e forse anche per un blog che dopodomani non leggerà più nessuno.

Ma un fiammifero per Stefano vorrei accenderlo, una proposta. A partire dalla sua storia (e dalla titanica lotta della sorella Ilaria) facciamo lo sforzo di pensarci accanto a lui e a loro. Lungo la stessa strada, con le stesse possibilità, la stessa gioia e gli stessi errori. Nello stesso destino.

Articolo Precedente

Consiglio d’Europa: “Italia limiti giudici in politica e regoli conflitto di interessi dei deputati”

next
Articolo Successivo

Roma, sequestrato l’attico di Marra al centro dell’indagine sulla presunta corruzione

next