Per fortuna c’è un giudice anche a Roma… e finalmente sette anni dopo viene scritta la prima parola seria sulla fine del giovane Stefano Cucchi con l’unica ipotesi accettabile degli eventi: omicidio (seppur) preterintenzionale. Merito soprattutto della determinazione e del coraggio della sorella Ilaria, non c’è dubbio. Una determinazione, quella di cercare e mostrare al mondo la verità, viceversa non attribuibile agli organi istituzionali che si sono occupati del caso.

Ripercorriamo i passaggi principali. La sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di droga. I carabinieri che lo fermano, lo tengono in caserma fino alla mattina successiva. Quando Stefano compare davanti al giudice per la convalida dell’arresto, mostra già i primi segni di uno stato fisico che nel giro di pochi giorni lo porterà alla morte.

Prima domanda, rivolta a chi di dovere con tutto il garbo consentito dalla gravità dei fatti: il giudice che se lo trovò davanti non notò nulla di insolito? Qualcuno obietterà che Stefano non denunciò il pestaggio. Ettecredo, dicono a Roma. Se ti hanno massacrato fino a romperti una vertebra e causarti complicanze neurovescicali e infine cardiache (poi fatali), probabilmente sei anche terrorizzato. Non ce la fai a denunciare niente e tantomeno nessuno.

Seconda domanda, rivolta con meno garbo: i medici dell’Ospedale Pertini considerano abitudinario il fatto di trovarsi davanti pazienti che presentano lesioni da tortura (così le voglio chiamare) e non sentire la necessità di presentare denuncia?

Terza domanda, la più necessaria in uno Stato di diritto: ma il procuratore del tempo, quando si trovò fra le mani l’esposto della famiglia Cucchi e si cominciò il primo esame dei fatti, non ritenne opportuno mettere sotto indagine coloro che, persino agli occhi dell’ultimo dei rimbambiti, erano visibilmente i primi sospettati? I carabinieri.

Non so voi, ma io me la immagino la scena, i magistrati riuniti a discutere come proseguire: che cosa abbiamo qui? Un fermo per possesso di droga, detenzione in caserma per l’intera notte… mhmm. Certo, tutto è possibile, possono esserci stati interventi successivi della polizia penitenziaria, più difficile che sia stato il personale ospedaliero a menarlo (gli inquirenti parlano come mangiano quando nessuno li ascolta, ndr), ma a noi corre l’obbligo di indagare anche i primi che lo hanno avuto in custodia.

E invece no.

Invece il procuratore capo del tempo (quando ci sono di mezzo eventuali reati contestabili alle forze dell’ordine e oltretutto di questa gravità, le autorizzazioni le dà il capo) decise che si potevano prendere per buone le calunnie (ora così sono state definite) agli agenti penitenziari in servizio al tribunale di Roma e che loro, i primi che lo ebbero in custodia, potevano tranquillamente essere esonerati da qualsiasi responsabilità.

Perché? Questo andrà chiesto, da chi di dovere, a chi prese quelle decisioni.

Ma certo il capitolo non si può chiudere così, fingendo che adesso è stato tutto rimesso in piedi, nella giusta prospettiva. Un giovane uomo è morto mentre era nella custodia dello Stato. Nonostante la denuncia della famiglia, i custodi hanno continuato a mentire, accusando altri e cercando di insabbiare la verità. Due processi non sono riusciti a fare chiarezza. L’istituzione che doveva rendere giustizia alla vittima si sente esente da qualsiasi responsabilità? Aspettiamo questa risposta.

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