Vorrei sommessamente osservare come non stia in piedi la classificazione a “figuraccia” del recente pendolarismo grillesco, con andate e ritorno tra Farage e Verhofstadt, Alde e Ukip, perché qui non sono in discussione leggerezze e pressapochismi. La vicenda della conversione liberista di Grillo a Malindi e la successiva apostasia a Strasburgo è una spia definitiva del modo di ragionare proprio di chi regge le sorti del Movimento 5 Stelle; e della sottomissione dei seguaci.

Insomma, scandalosi non sono i tira-e-molla o gli appuntamenti mancati, quanto l’assoluta indifferenza a elementari principi di coerenza, per cui accasarsi significa scegliere un campo. Ed è a dir poco spudorato pensare di riposizionarsi nell’area del mercatismo thatcheriano più intransigente e dell’europeismo acritico dopo aver proclamato per anni la propria totale avversione per quelle ideologie; e poi – in un batter d’occhi – passare a schierarsi con Giulietto Chiesa nel fronte di un anti-atlantismo che nemmeno Armando Cossutta… Fregolismo che può funzionare con il guardaroba da scena, ma che in politica suona a spudorata irrisione dell’intelligenza dei destinatari di tale messaggio.

Un fatto configurabile come truffaldino, non uno scivolone comico (magari pure spassoso). E francamente non convince almanaccare di altrettante “bidonismi” imputabili agli avversari – da parte dei minimizzatori, impegnati a turare le falle di coerenza applicando pezze a freddo ai fatti – visto che si aveva la pretesa di bonificare il campo politico proprio dalle malefatte di siffatti avversari. E ridursi a misurare il tasso reciproco di rogna non è certamente in linea con le promesse di partenza.

Soprattutto considerando la vorticosità con cui si è svolta la vicenda: nello spazio di pochi giorni passare dal tentativo di farsi cooptare dalle tecnostrutture e dagli establishment di Bruxelles e subito dopo andare a bussare alle porte del Cremlino putiniano. Si direbbe, con Grillo di volta in volta influenzato dall’ultimo interlocutore sentito in ordine di tempo: Flavio Briatore ai bordi della piscina keniota, poi l’antico concittadino Giulietto Chiesa. Magari ricercato – con la mediazione di un redivivo Paolo Becchi – come canale per i petrol-rubli post-sovietici?

Mosse rivelatrici di attitudini affaristiche, che il manager Casaleggio junior ostenta palesemente nel gestire i business di famiglia (di cui il Movimento 5 Stelle è asset primario), ma che vanno registrate anche come spia di un congenito cinismo opportunistico riscontrabile già nel giovane Grillo, quando frequentava gli amici genovesi di piazza Martinez, nel quartiere semi-popolare di San Fruttuoso, e si appropriava delle battute di Orlando Portento; cabarettista anch’esso ma meno carrierista del vicino di casa (il tormentone grillesco “hai mangiato pane e volpe” in effetti è suo). Quando rombava con la Ferrari appena acquistata nel paesino di Savignone, volendo far schiattare gli altri villeggianti (tra cui Fabrizio de André), che avevano sempre snobbato quei tamarri dei due fratelli Grillo. Pure un po’ destrorsi.

Una sorta di menefreghismo reso possibile dall’acquiescenza di chi gli sta attorno. Per cui Luigi Di Maio, interrotta (pro tempore?) la frequentazione dei professorini renziano-blairisti della Luiss, inarca il petto e tuona di “uscite dall’Europa” (ma non era lui uno degli sherpa con David Borrelli della conversione NeoLib?). Alessandro Di Battista si esibisce dalla Gruber in acrobazie pompieristiche dicendo che è più importante parlare di sanità. Indubbiamente, basta che non sia un modo per eludere argomenti spinosi. Come quello di una perdita di credibilità politica, che vanifica il tentativo di trasformare l’indignazione in forza costituente.

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