Sunny e Zain arrivano con i tegami pieni di riso basmati. La signora Donatella con una crostata. C’è odore di zenzero e di curcuma. Il “chapati”, il pane tradizionale del Medio Oriente, è sulle tavolate assieme alle pucce salentine. Si sta un po’ stretti. Stavolta i commensali sono oltre trenta. Chi manca all’appello fa pervenire comunque la sua quota: dieci euro a testa. Perché questa è la cena con cui, ogni mese, ci si prende una responsabilità collettiva: finanziare un progetto di accoglienza dal basso per due migranti che hanno preferito questa minuscola realtà alle grandi città.

Castiglione d’Otranto, frazione di Andrano, provincia di Lecce. Un paese in via d’estinzione: meno di mille abitanti, un’intera generazione (dai 18 ai 40 anni) scappata via, tre nascite e 17 morti in un anno. Per riscrivere il futuro, c’è bisogno di giovani che vogliono restare a lavorare. E, pur di trattenerli, qui si sperimenta l’altamente improbabile: è un’associazione a farsi carico dell’ospitalità di due ventenni pachistani fuoriusciti dal circuito dell’accoglienza di Stato.

“Quando hanno ottenuto il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria e hanno dovuto lasciare il centro che li ospitava, non sapevano dove andare, non avendo una rete familiare in Italia. In paese conoscevano noi. E noi non ci siamo tirati indietro, perché loro sono ricchezza per tutti”. Donato Nuzzo, 34 anni, presiede Casa delle Agriculture Tullia e Gino, l’associazione che ha affittato per loro una casa, paga le utenze, li aiuta a cercare occupazione. Non pietismo, ma un rapporto alla pari: in cambio, quando non lavorano nella ristorazione, Sunny e Zain contribuiscono a portare avanti assieme agli associati il progetto di riconversione delle terre incolte.

Parola chiave: sviluppare autonomia. È il concetto alla base di quello che nel Salento sta emergendo come il “modello Andrano”, dove è attraverso il lavoro che si collaudano forme di integrazione a più livelli, da quelle spontanee a quelle organizzate, attraverso l’esperienza dei tirocini formativi.

È servito un po’ di tempo per capirlo: dal 2011, da quando le primavere arabe hanno iniziato a sbocciare e poi a sfiorire, a Castiglione è attivo uno dei 36 centri di accoglienza straordinaria gestiti sotto il controllo della prefettura di Lecce. In una masseria poco fuori dal paese, ospita 53 persone, tutti uomini e quasi tutti africani. Convivenza pacifica, ma un rapporto solo epidermico, tipico della prima accoglienza, con la comunità locale: nell’attesa dei documenti, ci si sforza poco a conoscersi, anche quando i migranti restano per mesi. Eppure, chi è riuscito a intrecciare rapporti è rimasto anche dopo, per fare il badante, per fare l’agricoltore, chi il carpentiere.

Il lavoro resta la leva per compenetrarsi. Lo dimostra nella stessa realtà, ad Andrano, un altro progetto. È l’accoglienza di secondo livello, lo Sprar che il Comune ha attivato assieme a Gus, il soggetto gestore. In quattro mesi, sono stati avviati tre tirocini formativi su un totale di undici persone accolte. Vengono da Iraq, Pakistan, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, Mali e tra loro c’è chi apprende l’arte del panettiere dal fornaio del paese, chi aiuta l’ente locale nella cura del verde o nella piccola manutenzione. Altri tre tirocini sono in dirittura d’arrivo, presso due trattorie e un’officina meccanica. Tutti retribuiti come da legge regionale, con 450 euro mensili. “Coloro che emigrano devono ridefinire il proprio progetto di vita. Se la comunità che accoglie non attua politiche inclusive – dice l’assessore al Welfare Paola De Paolis – le loro aspettative possono trasformarsi in sofferenza, generare disagio, sviluppare aggressività fino alla malattia”.

È l’altra faccia del sistema accoglienza: piuttosto che disperdere soldi in mille rivoli, gonfiare affitti o rimborsi spese, si destina circa il 10 per cento del budget giornaliero (pari a 35 euro a persona) alla sovvenzione dei tirocini formativi, attivati tramite il centro per l’impiego, a volte cofinanziati dalle aziende e destinati anche ai “vulnerabili”, i migranti affetti da disabilità grave.

“La nostra esperienza nel Salento – spiega Andrea Pignataro, responsabile nazionale Gus – ci conferma che almeno il 30 per cento di chi ne usufruisce riesce ad essere assunto, al termine di tre o sei mesi, dagli stessi datori o da altri. L’obiettivo è rendere autonome queste persone. E il percorso è chiaro: alfabetizzazione, permessi in regola, bilancio delle competenze, tanta formazione e avvio al lavoro. Così si fa integrazione nei paesi più seri”.

È il darsi anche un’opportunità a vicenda: a fronte di 25 beneficiari dello Sprar, sono otto i giovani del posto regolarmente assunti come mediatori, diplomati e laureati strappati all’altrove di sempre. I fondi del Ministero dell’Interno sono linfa per l’economia locale: diventano un reddito le case rimaste sfitte per anni (circa 70 euro al mese di affitto per ogni migrante) e il pocket money viene speso nei negozi di vicinato. Qui, allenati dagli anni Ottanta a spezzare il pane con la comunità marocchina, la straordinarietà è diventata normale.

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