Abbiamo per anni sparato a zero sul cemento targato Pd. Se oggi a cementificare fossero i Cinque Stelle non sarebbe più bello. Più accettabile. Anzi, forse sarebbe perfino peggio: la difesa dell’ambiente e la lotta al mattone selvaggio sono bandiere del M5S. Anche per questo gli elettori hanno scelto il movimento di Beppe Grillo.

I giornali parlano del progetto dello stadio di Roma (con annessi grattacieli). E spunta un’idea che avrebbe il sostegno della giunta di Virginia Raggi: costruire lo stadio e i grattacieli. Ma “tagliati” di qualche piano. I signori del mattone ringrazierebbero.

È questa l’idea del futuro di Roma che hanno i Cinque Stelle?

Eppure modernità non significa per forza cemento. Ascolti i dibattiti sul progetto del nuovo stadio della Roma e dei grattacieli – questo è il problema, più che l’impianto sportivo – e sempre senti ripetere quella frase: c’è bisogno di modernità.

Come se dare un futuro alle nostre città fosse sinonimo di costruire. Sempre e comunque. Affermazioni accompagnate dai rendering, le simulazioni al computer degli architetti, dove le nuove costruzioni appaiono sempre belle e scintillanti, con gente felice che si muove tra piazze e strade virtuali. Niente di più distante dalla realtà, quando poi il cemento arriva davvero a togliere la luce. Ma ahimè allora è troppo tardi per rendersene conto. Il danno è fatto, per sempre.

Basterebbe andare a vedere l’esito di tanti progetti che avrebbero dovuto portare la modernità nelle città: City Life a Milano, il Crescent di Savona e il suo gemello di Salerno, tanto caro all’allora sindaco Vincenzo De Luca. Speculazioni edilizie che hanno riempito di cemento gli spazi spezzando il tessuto urbano e sociale.

Ne sono fiorite ovunque in Italia: colpa di amministratori che puntavano prima di tutto a fare cassa. Ma anche di archistar che hanno accettato di mettere le loro firme su progetti senza anima né identità, che avrebbero potuto nascere a Milano come a Shangai. Pensiamo proprio a City Life dove l’architetto Arata Isozaki ha realizzato una torre che pare la fotocopia di un’altra progettata in Giappone. Milano come Tokyo, sono la stessa cosa. E anche qui troviamo l’architetto Daniel Libeskind, un progettista dalla firma facile: lo stesso dei grattacieli che cambierebbero l’orizzonte splendido e delicatissimo di Roma. Una città vale l’altra.

Tante archistar sono cadute in questo errore: vedi i ponti di Santiago Calatrava, così simili a Reggio Emilia e in Spagna. Gli architetti – geniali finché volete – che pensano di imporre il proprio stile invece di  rispettare lo spirito dei luoghi sedimentato in secoli di vita. Peccato di superbia, per non pensare che nella bulimia di certi progettisti c’entri piuttosto il portafogli.

Ci vorrebbe più umiltà, come chiede sempre Renzo Piano: “L’architettura è un’arte imposta. Non è come la letteratura e la musica che possiamo ignorare. Gli architetti progettano luoghi dove gli uomini sono costretti a vivere. Per questo ci vuole rispetto”.

E poi c’è Roma. Non è retorica dire che parliamo di una città unica al mondo. Come diceva Carlo Levi nell’incipit dell’Orologio: “A Roma la notte par di sentir ruggire i leoni”. Già, a Roma c’è il tempo. Ci sono l’antichità, il barocco, l’architettura fascista, ma c’è soprattutto qualcosa – la vita? – che li unisce. La nostra Capitale pare nascondere anche ai romani il segreto della propria armonia: “Quando sarò grande anch’io tornerò a Roma. Troverò, se i mezzi me lo permetteranno, un appartamento su una collina da dove guarderò la città crogiolarsi al sole. Rassicurato dal saperla immortale. Anch’io sarò indifferente alla rovina che la circonda ma che continua a risparmiarla. E, chissà, forse rimarrà un po’ di eternità anche per me”, ha scritto Philippe Ridet, corrispondente di Le Monde, in un articolo d’addio che pare la lettera di un innamorato.

Vero, manca la modernità, pure se ci sono interventi riusciti come l’auditorium di Piano, il più discutibile Maxxi di Zaha Hadid e adesso la Nuvola di Fuksas. Manca la modernità in tante città italiane, basta leggere la “Storia dell’architettura italiana dal 1985 al 2015” (Marco Biraghi e Silvia Micheli, Einaudi) per scoprire che gran parte del nostro Paese – soprattutto il Sud – è stata dimenticata dalla buona architettura.

Costruire bene si può: guardate Berlino, per restare in Europa. Ma interventi senza anima come le tre torri dello stadio di Roma non porteranno il futuro. Anzi, come tanti progetti concepiti soprattutto per interessi immobiliari, invecchieranno presto, come alberi che seccano perché trapiantati in un terreno non loro.

Costruire si può, si deve. Ma è possibile farlo bene, portando bellezza, come ci ha insegnato Pier Luigi Nervi a Milano e anche a Roma. Stiamo attenti, però, perché gli edifici possono testimoniare il senso del futuro. Le idee. Ma anche la loro mancanza. La perdita della nostra identità. Sbagliare, soprattutto a Roma, non si può più. Rovineremmo la nostra città più grande. E, ancor di più, tradiremmo noi stessi.

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