Quattro giornalisti rinviati a giudizio in Svizzera con l’accusa di diffamazione ma anche di “concorrenza sleale“. Per aver dato troppo risalto a un caso di mala sanità avvenuto nel luglio 2014 nella clinica Sant’Anna di Sorengo, sulla collina sopra Lugano, sollevando dubbi sui sistemi di controllo della struttura. Succede al direttore, al vicedirettore, caporedattore e una giornalista del domenicale ticinese Il Caffè, che ha raccontato come per errore un chirurgo della rinomata casa di cura – scelta anche da Barbara Berlusconi per partorire i suoi figli – abbia sottoposto una paziente di 67 anni a una mastectomia totale (l’asportazione chirurgica dei seni) anche se la donna aveva solo un piccolo tumore che non richiedeva un intervento così radicale. Inizialmente il medico ha tentato di convincerla che il cancro si era rivelato più radicato del previsto. Alcuni mesi dopo, però, la struttura ha ammesso che c’era stato uno scambio di persona. E’ seguita una denuncia per lesioni e falso in certificato medico.

Il giornale ha dato conto della vicenda e ha messo nel mirino anche i vertici della struttura, che hanno consentito al medico di continuare a lavorare nonostante fossero al corrente dell’errore e non hanno segnalato l’episodio alla magistratura. Anche il chirurgo, ora sotto inchiesta, chiama in causa l’organizzazione della clinica. Che lo scorso anno ha risposto ai servizi del Caffè con una denuncia, ritenendosi vittima di una “campagna denigratoria basata su informazioni raccolte da fonti discutibili e non sufficientemente verificate“. La procura ha avviato le indagini e ha deciso di mandare a processo il direttore Lillo Alaimo, il suo vice Libero D’Agostino, il caporedattore Stefano Pianca e la giornalista Patrizia Guenzi. Le accuse non si limitano alla diffamazione a mezzo stampa: c’è anche la “concorrenza sleale“, nel senso che gli attacchi alla Sant’Anna avrebbero favorito altre strutture.

Domenica Il Caffè è uscito con una prima pagina senza notizie e con un unico grande titolo, “Libertà di stampa”. Sopra, una gomma che cancella la scritta. Accanto un editoriale del direttore, che si chiede se sia “possibile cercare di capire come sia potuto accadere un simile errore e quale organizzazione e quale sicurezza siano garantite ai pazienti in una nazione che spende oltre 70 miliardi l’anno per la sanità“. E conclude: “No, forse non è possibile tentare di comprendere e comunque non è possibile farlo attraverso un’inchiesta giornalistica come nei mesi scorsi ha fatto il Caffè“. Infatti “la magistratura, dando tempestivamente seguito ad una denuncia della clinica, poco prima di Natale ci ha comunicato di aver concluso l’inchiesta e la decisione di voler processare in aula penale quattro giornalisti della nostra testata”. “Una prima svizzera sul fronte giudiziario, ma soprattutto un segnale preoccupante per la libertà di stampa“.

Segue un articolo intitolato “A processo per aver scritto troppa verità“, in cui si spiega che “la denuncia della clinica non indica uno, che sia uno, errore pubblicato dal giornale. E non potrebbe essere altrimenti, perché quanto scritto da maggio a fine luglio (è a questo periodo che fa soprattutto riferimento la querela) si basa tutto su testimonianze rese a verbale e documenti ufficiali“. Per esempio “sono gli infermieri del blocco operatorio ad aver dichiarato in magistratura che all’epoca dei fatti ogni chirurgo, una volta entrato in sala procedeva come meglio credeva per identificare il paziente: chi scambiava quattro chiacchiere con la persona distesa sul lettino; chi si limitava ad un’occhiata; chi non faceva né l’una né l’altra cosa”.

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