Il 9 gennaio di dieci anni fa Steve Jobs annunciava al mondo il primo iPhone. Da quel giorno la vita della maggior parte di noi è cambiata: è diventata più tecnologica, più connessa con il mondo, perennemente in Rete. La banda larga è diventata come il “pane”, il cellulare lo usiamo per collegarci a internet e vedere l’ultima notizia per acquistare un libro online o chattare con chi ci sta di fronte. Grazie allo smartphone, tutti senza distinzione di età e classe sociale, hanno avuto accesso a internet: lo spazzino e il professore della “Sapienza” hanno la stessa possibilità. Poi, magari, l’uso è differente.

L’unico luogo dove lo smartphone è rimasto condannato alla crocifissione e alla censura è la scuola. Mentre Jobs dal palco del Macworld di San Francisco profetizzava una delle più grandi rivoluzioni, in Italia il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni si affrettava con una circolare firmata nello stesso anno ad alzare le barricate contro i cellulari in classe.
L’allora inquilino di viale Trastevere scriveva: “Durante le ore di lezione l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando pertanto un’infrazione disciplinare sanzionabile attraverso provvedimenti orientati non solo a prevenire e scoraggiare tali comportamenti ma anche, secondo una logica educativa propria dell’istituzione scolastica, a stimolare nello studente la consapevolezza del disvalore dei medesimi”.

Nel frattempo che Fioroni come Paolo V nei confronti di Galileo Galilei costringeva alla censura il mondo dell’istruzione, i millennials non stavano certo a dar retta a quel signore nato nel 1958. Questione di generazioni.

Fuori dalle aule il mondo è andato avanti: oggi il 42% degli italiani usa gli smartphone per collegarsi a Internet; il 70% tra i 14 e i 24 anni. Il 67,4% ha la banda larga e il 69,2% ha un accesso a Internet.

Potrà sembrare strano ma l’unico posto dove la banda larga è poco diffusa sono le nostre aule. Secondo il piano nazionale digitale il 70% è connesso in Rete in modalità cablata o wireless ma generalmente con una connessione inadatta alla didattica digitale. Non solo: i dati dell’indagine Ocse Talis 2013 vedono l’Italia al primo posto per necessità di formazione Ict (Information and Communications Technology) dei propri docenti e quanto alle competenze digitali di base degli studenti, l’Italia è al 23esimo posto in Europa. I recenti dati Ocse dicono che ogni 15enne usa il computer in classe 19 minuti al giorno contro una media Ocse di 25 minuti e picchi in Australia di 52.

Il governo Renzi ha avuto senz’altro il merito di cominciare a parlare di digitale, coding, formazione in questo settore. Lo ha fatto magari facendo com’era sua caratteristica il passo più lungo della gamba, pensando che a dirigere le scuole italiane ci fossero tutti capi d’istituto come Salvatore Giuliano, il preside del Majorana di Brindisi; illudendosi che gli animatori digitali avessero il “potere” di convincere i colleghi a usare tablet e smartphone in classe per fare una didattica digitale. Non è avvenuto nulla di tutto ciò. In molte scuole non c’è ancora neanche il wireless, soprattutto nell’infanzia e nella primaria e durante i viaggi d’istruzione ci sono ancora prof che vietano l’uso del cellulare senza essersi accorti che oggi le foto si fanno con gli smartphone.

Almeno è cambiato l’atteggiamento: “Gli smartphone torneranno tra i banchi”, aveva annunciato il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone deciso ad archiviare la circolare del 2007. Lui se n’è andato (come un “buon” politico fa, sempre a servizio dello Stato), noi siamo rimasti ancora con la circolare Fioroni. A noi maestri e professori il compito più arduo. Giusto così, ci spetta: non rendere i nostri alunni schiavi dello smartphone ma “padroni” dello schermo ovvero capaci di padroneggiarlo.

Spero non dovremo aspettare tutto il tempo che ha atteso Galileo per comprendere che il “telefono” può essere un mezzo formidabile per fare lezione. Qualche tempo fa durante un convegno organizzato da “Intercultura” dov’ero stato chiamato a moderare un dibattito con 400 studenti circa delle scuole superiori appena entrato nella sala mi sono accorto che mentre un “professorone” recitava la sua parte sul palco, il giovane pubblico twittava, postava, chattava, taggava. Li ho guardati uno a uno. Ho girato per la sala “spiandoli”.

Arrivato il mio turno ho fatto loro una proposta: “Il mio account Twitter è @alexcorlazzoli, usatelo mentre discuteremo. Dite quello che pensate con un cinguettio o con un post”. Risultato? E’ nata una straordinaria discussione virtuale e reale. Il segreto è sempre lo stesso: creare empatia, essere capaci di educare. Anche alla “cittadinanza digitale”.

Lo hanno capito la media Vidoletti e il liceo artistico Frattini di Varese che stanno lanciando due iniziative singolari per dimostrare che non serve a nulla censurare l’uso del telefonino in aula. Anzi. In questi due istituti docenti e alunni hanno stretto un’alleanza e hanno deciso di invertire la tendenza, di non usare lo smartphone solo per taggare, postare o chattare ma per apprendere.

Nessuno vuole nascondere i pericoli dell’uso sconsiderato dello smartphone ma solo attraverso una corretta alfabetizzazione digitale, fatta dalla scuola, potremo evitare ciò che sta succedendo tra i nostri giovani. Per ora molti insegnanti (per fortuna non tutti) stanno facendo solo quello che facevano i preti con la tv quando avevo 6-7 anni: proponevano il digiuno in quaresima offrendo alle famiglie un telo viola da mettere sulla televisione.

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