«Rom a Roma: è arrivato il momento di giocarsi il settebello». E’ il titolo di un preziosissimo articolo redatto da Tommaso Vitale, professore a Sciences Po e presentato in Campidoglio nel maggio 2015. Si tratta di sette principi di programmazione per avviare e implementare nella Capitale una politica di superamento delle baraccopoli rom.

Ho ripreso l’articolo dopo aver letto la Memoria della Giunta Raggi del 21 novembre scorso avente come oggetto “Indirizzo per l’avvio del processo per il superamento dei campi-villaggi della solidarietà e per l’inclusione e l’integrazione delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti”. Nello stesso la Giunta capitolina lancia un Piano di Lavoro dal titolo “Progetto Inclusione Rom”, una miscellanea confusa, e a tratti incomprensibile, di azioni da promuovere nei primi 7 mesi del 2017 per superare definitivamente gli insediamenti abitati da soli rom. La sua lettura è una cartina di tornasole utile a comprendere lo stato confusionale in cui versa l’Amministrazione romana sull’argomento.

Stride il contrasto tra i due documenti. Nel primo il professore dell’Università parigina indica sette principi chiari e definiti, risultato dello studio di best practices realizzate in Europa. E’ un manuale che ogni amministratore chiamato a governare sul suo territorio la cosiddetta “questione rom” dovrebbe gelosamente conservare. E’ spiegato cosa fare (prevedere alternative abitative per tutti senza scremature, disporre di una varietà di strumenti abitativi, investire sulla negoziazione diretta con le famiglie, dialogare con la città, prevedere un’azione di costante monitoraggio…) e soprattutto cosa non fare (non lasciare indietro nessuno, evitare azioni poco trasparenti e ambigue, non abbassare le voci di budget già predisposte nel passato, evitare di contare su un’unica voce di finanziamento e scelte unilaterali, non escludere a priori incentivi simbolici e materiali,…). Sette punti lineari e consequenziali, di una disarmante logicità. «Niente di trascendentale – commenta Vitale – Puro lavoro politico per governare un settore». «Per la giunta comunale a Roma, si tratta ora di governare con efficacia e determinazione il superamento dei campi in una grande sfida di civiltà», affermò nella Sala del Carroccio del Campidoglio.

Venti mesi dopo ecco il Piano di Lavoro stabilito dalla Giunta Raggi che, oltre a disattendere i 7 principi appare, nella forma come nella sostanza, un appunto lasciato sulla scrivania di qualche dirigente comunale ed infilato frettolosamente come allegato in una Memoria. Da gennaio a luglio 2017 prevede 24 attività promosse da una trentina di soggetti chiamati ad incontrarsi attorno ad uno o più Tavoli. Si parla di generici «contatti con le autorità di gestione», incarica la Guardia di Finanza in «accertamenti patrimoniali», lancia la proposta di partenariati per bandi europei e termina con una vaga «stesura Report e incontro monitoraggio, assessment e risoluzione problemi».

Nel Piano di Lavoro mancano quelli che Vitale chiama «i presupposti per governare il problema». Non è chiaro chi siano i responsabili del superamento degli insediamenti in seno alla macchina comunale; non si prevedono percorsi di accompagnamento sociale differenziato; non si precisano risorse; nessun cenno, dopo Mafia Capitale, all’importanza della trasparenza nei protocolli.

Non sembra proprio che il Piano di Lavoro possa puntare ad offrire soluzioni in maniera duratura e strutturale trattandosi di un elenco disordinato di punti appesi a un foglio, scollegati tra loro e indefiniti.

A Roma si dimentica che le ricette ci sono. Si possono discutere, ridefinire, puntualizzare. Si preferisce invece giocare a prendere tempo. Da anni, nella Capitale, a questo servono i Tavoli istituzionali: a guadagnare tempo per rimandare le decisioni. Decisioni che sono esclusivamente politiche e che quindi la politica deve operare, senza deleghe, consultazioni infinite e foglie di fico.

Roma deve giocarsi il settebello come auspicava Vitale? In realtà la partita deve ancora iniziare e qualcuno, ancor prima di sedersi al tavolo, sta già iniziando a bluffare. Ma i bluff durano poco perché quando si analizzano le politiche pubbliche non contano le intenzioni riportate sui Piano di Lavoro ma solo i risultati, misurati in termini di benessere prodotto sulle persone e sulle comunità. Rappresentanti e consulenti della giunta pentastellata dovrebbero ricordarselo, perché loro passano ma i cittadini, con una città in agonia, restano.

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