Gli accordi tra aziende e sindacati (voluti dai proprietari pubblici per evitare problemi di consenso), che hanno fatto terminare scioperi e disagi per i cittadini di Roma e di Genova, ripropongono un annoso problema mai risolto. I lavoratori di Atac, a Roma, incrociano le braccia e fanno saltare il servizio di metro e bus; contemporaneamente a Genova, la protesta dei dipendenti di Atp segna il terzo giorno di sciopero selvaggio bloccando gli autobus. Blocchi terminati solo dopo accordi aziendali molto positivi per i lavoratori. Ma come si può spiegare che aziende al collasso riescano sempre a trovare i soldi per siglare o ripristinare ricchi “integrativi” (accordi aziendali di secondo livello), mantenendo in essere condizioni salariali che nessun altro settore in queste condizioni riuscirebbe a mantenere?

Il panorama italiano è costellato da accordi integrativi nel settore del trasporto pubblico locale (Tpl) dove opera una importante e “storica” categoria di lavoratori, gli autoferrotranvieri. Nelle imprese normali, in condizioni di concorrenza, tali accordi vengono stipulati solo in caso di ricchezza da ridistribuire. Una quota va alla proprietà e l’altra agli addetti. Ma ciò però accade quando l’impresa funziona e cresce. Al contrario, nei trasporti pubblici locali, dove sono tutt’altro che vacche grasse in questo periodo, si firmano integrativi che ridistribuiscono non ricchezza, ma debito pubblico (quello sì in crescita). Gli “integrativi” riguardano tutte le aziende di trasporto urbane ed extraurbane d’Italia. È da oltre 30 anni che le aziende firmano accordi con l’avvallo di Comuni, Provincie o Regioni che poi se ne sobbarcano i costi extra, che, a loro volta, si aggiungono così a quelli del contratto nazionale.

Ogni accordo integrativo dovrebbe trovare una ragione legata alla crescita della produttività, alla riduzione dei costi, all’ampliamento dell’offerta e alla maggiore qualità del servizio. Se lo stato del trasporto pubblico locale si misurasse in base a questi accordi, le aziende italiane dovrebbero essere le più efficienti d’Europa. Dovremmo avere, come in molte città europee, il 60-70% di cittadini che si serve dei mezzi pubblici e il restante 30-40% che si serve di quello privato.

Succede invece esattamente il contrario. Scarsa quota di utilizzatori del Tpl, automobili in strada e sui marciapiedi, con scarsa vivibilità cittadina. Osservando l’abuso dell’utilizzo di questo istituto contrattuale, si scopre che per lungo tempo i “ricchi” accordi integrativi (che prevedevano più salario accessorio e tempi di guida rigidi e ipercontrattualizzati) si stipulavano in occasione delle elezioni locali. Vizietto che valeva anche per le altre municipalizzate (acqua, luce, gas, rifiuti trasporti ecc.).

Tale meccanismo (sistema) sembrava fosse imploso con la crisi delle risorse pubbliche. Dopo gli accordi di Roma e Genova si scopre che non è così. La maggiore “produttività” ha voluto dire nella quasi totalità dei casi più costi pubblici, più disavanzo di bilancio per le aziende e peggioramento della qualità dei servizi.

La gran parte degli accordi integrativi siglati con il pretesto di qualche circostanza (eventi, fiere, festività, cambio orari) non sono serviti per affermare un robusto e convincente assetto industriale del trasporto pubblico in tutto il Paese. Basta pensare ad Atac, società dai bilanci disastrosi, i cui libri contabili andrebbero portati in Tribunale (ciò vale per molte città del sud). Al nord invece spesso si è coperta l’inefficienza delle aziende di trasporto e i costi degli accordi integrativi con sapienti espedienti, riducendo le risorse comunali di altri servizi (ambiente, scuola, formazione, assistenza), e dirottando le risorse a favore della spesa per i trasporti. Scelta condivisibile e ambientalmente gradita se non creasse iniquità con l’altra spesa sociale (ridotta o
soppressa) e non coprisse inefficienze e gestioni aziendali assai discutibili.

A Roma è bastato un nuovo ciclo di scioperi per assicurare la continuità di una vecchia prassi consociativa. Eppure si pensava che, scoperto il vaso di Pandora dell’Atac, il cambiamento, il rilancio e il risanamento fossero dietro l’angolo. È il caso anche dell’ATP di Genova. Azienda vicina al fallimento (derivante da una dissennata gestione pubblica) che ha recentemente ceduto una quota azionaria a un operatore privato per salvarsi. Gli addetti hanno scioperato per tre giorni per vedersi rimesso in busta paga il 30% dell’integrativo (100 euro lordi) sospeso per tenere a galla la società.

Interessante sarebbe sapere i commenti di chi un contratto nazionale non ce l’ha, ammesso che non lavori in nero. Lo sperpero delle risorse pubbliche, come nel settore del Tpl, non aiuta a creare le condizioni di sviluppo che possono portare anche altri settori (e lavoratori) ad avere un salario. Dietro l’alibi di assicurare la continuità dei servizi pubblici di trasporto, non vengono individuati i gestori più efficienti e meccanismi competitivi per l’assegnazione delle gestioni delle concessioni. Meccanismi competitivi (concorrenza regolata dal soggetto pubblici) che  hanno permesso in tutta Europa di far fare al trasporto pubblico un grosso salto di qualità. Si preferisce tenersi il monopolio per soddisfare le lobby dei dirigenti e dei sindacati, sempre meno confederali, ma più attenti a mantenere gli iscritti con politiche corporative. Tutto ciò a prescindere dai livelli qualitativi dei servizi offerti. Così non viene data centralità alla qualità, all’efficienza, alla riduzioni dei costi, alle integrazioni dei servizi.

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