E lontano lontano, nel periodo natalizio s’assiste allo spettacolino trito dato dallo scontro tra sostenitori della festa e tentativi di demolizione della stessa. Dentro l’arena si grida alla retorica reciproca. Anche i piccioni fanno così, a volte. Rumori dal fondo di una ricorrenza che smuove sentimenti contrastanti tra cui un astio apparentemente immotivato. A freddo invece il motivo si intravede: il Natale è una richiesta in piena regola. Carica d’aspettative, tra l’altro. Non c’entrano regali, convenevoli o raduni imposti, tematiche care al cabaret spicciolo: roba ancora evitabile per chi sa concedersi la scelta. Il problema di fondo è altrove: si richiede senza sconti l’emotività dei partecipanti.

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Si mescola il tutto. Atmosfere malinconiche in 4K, sentimentalismi patinati spesso fuori luogo in un momento di confronti e traumatici bilanci. Il respiro breve prima di quella fase di transizione che è l’ultimo dell’anno. La morte di un anno altro, la nascita d’un corso nuovo. Il buffering interiore prima del conto per quanto alla rovescia. S’è di fatto inseriti in un circolo d’emozioni che non lasciano spazio all’inventiva, a tratti poco assimilabili all’idea di vacanza. In un’atmosfera rarefatta, magnificamente ferma, infarcita in maniera irrimediabile della celebrazione degli affetti. Per questo motivo che lo si viva nel bene o nel male, per qualcuno il periodo che va da Natale a Capodanno è un ricatto emotivo. Qualsiasi tentativo di fuga è inutile: c’è una morsa che pare stringersi attorno a chiunque non sia allineato con la richiesta esterna. Il più delle volte le vittime fanno capo alle opposte fazioni: sostenitori e sottrattori, senza distinzioni. In trincea è così.

Più che arRendersi ridicoli a tanta dispersione si potrebbe invece prendere atto che il Natale non è una festività ma uno stato interiore, e che come tale va gestito. Spostare l’asse della tradizione puntandola su necessità attuali. Agghindare questo periodo dell’anno con pure le sensazioni scomode. I festoni del mesto. Concedere e concedersi, laddove ci siano, il lusso di stati malinconici da prima serata, di tristezze offerte nel sottotesto dell’atmosfera di questi giorni. Indossarsi e brindare al peggio. Lasciare il passo a sensazioni a cui s’è sempre poco avvezzi, ancora impronunciabili soprattutto nel momento in cui con subdoli mezzucci se ne favorisce l’arrivo. Il trionfo della scompostezza interiore. Tutto in un solo calderone: gioia, tristezza, indifferenza. L’indifferenziato. Ripensare la tradizione senza tradirsi.

Una sagra emotiva,
scomposta e viva,
con dentro pure la malinconia.
Dove ognuno possa portare qualcosa.
Dove ognuno possa sfoggiare la sua.

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