C’è chi ha riscoperto un mais dimenticato, l’ha riportato in Italia e ne ha fatto un business. Chi ha guardato oltre le apparenze, dimostrando che dagli scarti degli ortaggi si possono ottenere cosmetici e quelli della frutta possono essere trasformati in tessuto. E c’è chi ha salvato l’ultimo mulino a pietra della Calabria. Sono sempre di più le storie di ragazzi che in Italia hanno deciso di investire e dedicarsi all’agricoltura, qualcuno tornando alle vecchie tradizioni dimenticate, altri rivoluzionando il lavoro agricolo, innovandolo e guardando oltre l’immaginabile. Ci sono volti, nomi, ingegno e tanta fatica dietro i dati che riguardano il settore: nel 2016 sono aumentati del 12% gli under 35 che hanno scelto questa strada. La metà sono laureati, ma hanno formazioni molto diverse: si va dagli agronomi agli ingegneri, dai biologi agli archeologi. Riscoprono o reinventano l’agricoltura italiana e anche se stessi. Nonostante una burocrazia che ancora ostacola le idee innovative.

IL RITORNO ALLA TERRA. E LE 50MILA IMPRESE DEGLI UNDER 35 – Quello della crescita delle imprese agricole è un fenomeno che va avanti già da qualche anno, ma il 2016 ha registrato numeri record. Secondo un’analisi Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare), sulla base dei dati Istat, nel secondo trimestre nel settore agricolo è stata registrata una crescita degli occupati del 6,5% rispetto allo stesso periodo del 2015. Nelle campagne italiane è aumentato sia il numero di lavoratori indipendenti (+5,9%), sia di quelli dipendenti (+7,1%). Un contributo particolarmente significativo è arrivato proprio dagli under 35: i giovani che trovano lavoro nel settore agricolo sono stati circa 16.200 in più rispetto allo scorso anno, crescendo del 9,1%. Secondo una stima di Coldiretti, sulla base dei dati Istat, nei primi nove mesi del 2016 sono nate 7.569 nuove aziende guidate da under 35 (tra agricoltura e allevamento). Il risultato è che oggi in Italia quasi un’impresa su dieci, condotta da giovani, opera in agricoltura (8,4%) e 50.543 sono guidate da under 35. Ma cosa spinge i giovani a lavorare nel settore? La crisi, soprattutto negli anni scorsi, ha dato di sicuro una notevole spinta, ma non è l’unica ragione alla base di quella che sempre più spesso è una scelta più che una necessità. Da una recente indagine del Censis sulle imprese aderenti alla Confederazione Italiana Agricoltori emerge che tra i fattori che hanno contato di più nella scelta del lavoro agricolo, accanto alla tradizione familiare (52,6%), figura anche la grande passione (28,9%). Ed ecco che si fanno largo gli agricoltori di prima generazione, quelli che questo mestiere non l’hanno ereditato.

TECNOLOGIA, INCENTIVI E TANTA BUROCRAZIA – E, potenzialmente, hanno una marcia in più rispetto ai loro nonni. Anche perché la nuova frontiera è l’agricoltura di precisione con droni, sensori, trattori senza pilota e mappe in 3D. I droni sono stati molto utilizzati nella battaglia contro Xylella e Punteruolo rosso, ma anche per monitorare lo stato delle colture e i livelli di irrigazione e per distribuire agrofarmaci. E se agli strumenti hi-tech aggiungiamo anche le infinite possibilità offerte dai social network e dell’e-commerce si capisce perché, secondo uno studio Nomisma, il 61 per cento dei nuovi agricoltori utilizza quotidianamente internet, il 95,6 per cento gestisce pagine web e banche dati online per la propria azienda, mentre il 20,4% degli agricoltori ha un proprio sito web. Sul fronte investimenti, il 2016 è stato l’anno di ‘Generazione Campolibero’, un piano governativo da 160 milioni (tra risorse interne e fondi Ismea-Bei) che comprende mutui a tasso zero e fondi per le start up agri-food (20 milioni), mutui a tasso zero a copertura di investimenti effettuati in azienda (80 milioni) e mutui a tasso agevolato fino a 30 anni di durata, per l’acquisto di aziende agricole da parte di giovani (60 milioni). Ma ottenere finanziamenti per chi parte da zero, portare avanti progetti ambizioni ed essere sostenuti non è affatto facile. A dirlo sono loro: i giovani che l’idea innovativa l’hanno avuta, ma che faticano a trovare investitori nonostante apprezzamenti e premi ricevuti, ma anche quelli che sono riusciti a trasformare le loro intuizioni in business di successo.

SE IL LAVORO È UNA MISSIONQuella di Stefano Caccavari, 27enne studente di Economia aziendale e appassionato di informatica, è certamente una storia unica. A San Floro (Catanzaro) era già noto, perché dopo essersi battuto insieme ad altri residenti e comitati contro il progetto di una discarica, poi bloccata dalla Regione, ha deciso di dividere i quattro ettari di terra di proprietà della sua famiglia e di metterli a disposizione di quanti volessero raccoglierne i prodotti coltivati con i metodi tradizionali. Così è nato l’’Orto di famiglia’. È stato un successo e da lì Stefano non si è più fermato. Il passo seguente è stato il progetto ‘Mulinum’, un grande mulino per trasformare i grani antichi calabresi, che “rendono meno di quelli industriali, ma sono molto più genuini”. Dopo un crowdfunding da record, il 18 settembre scorso sono iniziati i lavori. “A gennaio saremo pronti a spedire farina in tutta Italia – annuncia Stefano – e sta partendo anche il progetto delle pizzerie ‘Mulinum’, dove le pizze verranno fatte con la stessa farina utilizzata 100 anni fa. Oggi coltiviamo su una superficie di 150 ettari, ma l’anno prossimo possiamo arrivare a mille e in cinque anni potremmo creare migliaia di posti di lavoro”.

L’ARCHEOLOGO NELL’AZIENDA AGRICOLA – In una ‘missione’ si è trasformata anche la storia della Cooperativa agricola e sociale ‘Terre altre’ di Castello-Molina di Fiemme, in Trentino, che ha realizzato un progetto mettendo insieme agricoltura sostenibile e solidarietà. “Siamo partiti da una necessità del territorio –  spiega a ilfattoquotidiano.it la vicepresidente Loredana Cavada – dove non c’erano cooperative sociali di tipo b, che si occupano della gestione di attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”. Loredana è laureata in Scienze naturali, ma la squadra dei soci è composta da diverse professionalità: operatori sociali, due ingegneri, un archeologo che ha lavorato due anni in un’azienda agricola. Hanno scelto di coltivare con metodo biologico una zona abbandonata e recuperare la memoria storica e l’identità delle Valli di Fiemme e Fassa. “Siamo partiti intervistando gli anziani per capire che cosa si coltivava in queste zone negli anni ’50 e ’60 e siano riusciti a recuperare i veri sementi autoctone della valle”. Il risultato? Oggi si coltivano decine di varietà vegetali e alcune specie che erano scomparse tra cereali, piante officinali, ortaggi, piante tessili. E da questi prodotti si ricavano anche creme e unguenti. “Sono i servizi sociali a segnalarci le persone che più hanno bisogno e noi le facciamo lavorare – spiega – questo senza alcun contributo né tra quelli previsti per il settore agricolo, né per quello sociale, anche perché è impossibile per noi garantire un lavoro per 12 mesi all’anno dato che ci troviamo a quota mille metri. Ci manteniamo con quello che produciamo”.

GLI SCARTI DIVENTANO RISORSA – Un’altra storia viene dalla Toscana. Con gli scarti del suo orto Roberto Cerami, ex rugbista che prima di innamorarsi dell’agricoltura lavorava in uno studio grafico e realizzava adesivi per le moto, produce creme per il corpo, maschere facciali, saponi, tutti rigorosamente biologici. “Insieme al mio socio Damiano Dani – spiega Roberto – ci domandavamo come potessimo utilizzare lo scarto invenduto degli ortaggi e, attraverso sua moglie Elvira, che è una biologa, abbiamo contattato l’Università di Caserta, dove sono iniziati gli studi per capire se il progetto fosse fattibile”. Roberto e Damiano hanno scoperto che nelle loro zucchine e nei loro cetrioli c’è una percentuale di antiossidanti superiori alla media. Il prodotto ha ricevuto anche riconoscimenti e ora la loro azienda, Agricola Bio Eat di Empoli, sta affrontando l’iter burocratico. “Il prodotto esiste già fisicamente – spiega – il problema è le certificazione del beneficio e, ovviamente, quello dei fondi”.

TESSUTO DAGLI SCARTI DEGLI AGRUMI – La ‘politica antispreco’ è stata alla base anche dell’avvio di un’altra azienda. La Orange Fiber (con sede a Catania e in Trentino) fondata da Adriana Santanocito ed Enrica Arena, coinquiline a Milano, ma entrambe siciliane. Tutto è partito dalla tesi di laurea di Adriana, che studiava design e che ha analizzato una serie di tessuti sostenibili. La volontà di portare nel progetto qualcosa della sua terra, l’ha spinta a ipotizzare, e poi dimostrare, che si potesse realizzare un tessuto dagli scarti degli agrumi. “A questa idea si è lavorato nel laboratorio di Chimica del Politecnico di Milano – spiega Enrica Arena – e, nel frattempo, nel progetto sono entrata anche io, che alle spalle avevo una laurea in Cooperazione internazionale e un master in Comunicazione”. Poiché si tratta di un prodotto industriale, da quel momento gli step sono stati tanti e complessi. In seguito alla collaborazione con il Politecnico di Milano, la start up ha sviluppato e brevettato (in Italia e all’estero) un innovativo processo per creare un tessuto utilizzando le oltre 700mila tonnellate di sottoprodotto che l’industria di trasformazione agrumicola produce ogni anno in Italia e che altrimenti andrebbero smaltite. “Il percorso non si è ancora concluso – spiega Enrica – anche se abbiamo realizzato una prima produzione con più di 10mila metri di tessuto e sono arrivati i primi investitori. Finora sono stati raccolti 450mila euro tra fondi pubblici, privati e premi ricevuti. “Il tema dei fondi è complesso, soprattutto per chi parte da zero – spiega Enrica – ma proprio per chi non ha esperienze precedenti nel settore è fondamentale trovare qualcuno a cui far riferimento per gli iter burocratici”. Oggi i soci sono cinque ed entro la prima metà del 2017 contano di poter presentare al mercato i primi capi realizzati con questo tessuto.

L’INTUIZIONE GIUSTA PER INVENTARSI UN BUSINESS –  Tra le migliaia di giovani imprenditori che investono tempo e denaro in agricoltura c’è anche chi ha avuto un’intuizione e la costanza di seguirla fino a trasformarla in un business redditizio. È il caso di Carlo Maria Recchia. La sua storia sembra quasi una favola. Perché pur non avendo alle spalle una famiglia di agricoltori, ha sempre sognato di fare il contadino. Un nativo digitale con la passione per la terra. Così si è iscritto all’Istituto Tecnico di Agraria di Crema e, durante una ricerca, ha scoperto che in Perù e in Messico esiste una varietà di mais nero che risale all’epoca dei Maya, con delle rilevanti proprietà nutritive, che in Europa non si coltivava più dal 1700. Carlo aveva appena 16 anni e quei semi erano custoditi al Polo Nord, nella Banca dei semi alle Isole Svalbard, in Norvegia. Eppure tutto ciò non l’ha fermato. È riuscito ad avere 40 semi dell’antico cereale. “Quando sono arrivati, non avendo un terreno mio, ho chiesto ‘ospitalità’ alla mia vicina – racconta a ilfattoquotidiano.it Carlo Maria – ne sono state sviluppate 30 pannocchie e ho capito che era un prodotto eccezionale, diverso dal mais che conosciamo noi per gusto, sapore, per l’intenso profumo e che ha anche notevoli proprietà antiossidanti”. Così è nata l’azienda, la CMR Mais Corvino, che produce farina, biscotti e prodotti da forno, birra e, da settembre, anche la pasta senza glutine al mais corvino. Ad oggi si coltivano un milione e 400mila piante in 14 ettari di terreno. I costi di avvio sono stati irrisori e poi dai proventi delle vendite il giovane imprenditore è riuscito a pagare man mano appezzamenti più grandi. “Non ho usufruito di bandi – spiega Carlo Maria – anche perché, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti europei, il modo in cui sono strutturati favorisce chi ha già terreni o ha già una certa visibilità nel settore, mentre se parti da zero, come nel mio caso, puoi incontrare difficoltà anche a iscriverti alla Camera di Commercio. La burocrazia non aiuta”.

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