Dei tanti pacchi-dono di cui non dobbiamo dire grazie a Matteo Renzi, rifilati al Paese nel momento in cui varò la prima combriccola ministeriale, oggi stiamo sballando definitivamente quello contenente “mister incredibile”: il Giuliano Poletti che ha rivelato evidenti difficoltà nel collegare in un’unica funzione coordinata il pensante e il parlante.

Mentre tutto quanto c’era da dire su/contro questa macchietta dialettale può ormai venir dato per detto (e condividendo appieno la richiesta della sua rimozione dall’incarico; stante l’accertata pericolosità “ambientale” di costui), forse varrebbe la pena di riflettere sulle ragioni che lo fecero selezionare quale ministro della Repubblica; tra l’altro, in un ruolo delicatissimo come lavoro e occupazione.

Perché qui si rivela un’altra delle tentate malefatte non andate a buon fine di chi lo aveva messo in pista: lo statista di Pontassieve Les Deux Eglises. Ennesima ciambella riuscita prevedibilmente senza buco. E non solo per le foto che giravano già da tempo, ritraendo Poletti, allora dirigente d’impresa, in affabile conversare con personaggi poi precipitati nel gorgo affaristico/malavitoso di Roma Capitale. A conferma che sono sempre più labili i confini tra economia legale e non.

Infatti, nel suo accertato velleitarismo, scegliendo l’uomo targato Coop il giovane premier completava un trio composto da Federica Guidi allo Sviluppo e Maurizio Lupi a Trasporti e Infrastrutture. Guarda caso, la sommatoria di quanto uno come Matteo Renzi reputa corrispondere all’idea di potentati economici da privilegiare: le cooperative più burocratizzate, la Confindustria più rampantistica, la Compagnia delle Opere più affaristica. Seppure maldestra, un’idea di costituendo “blocco sociale”, con cui rinnovare i fasti di quello che assicurò a Berlusconi l’egemonia ventennale sulla scena politica (l’alleanza tra abbienti e impauriti).

Poi sappiamo come l’operazione è andata a finire: la Guidi che esce di scena piangendo, una volta divenuta di dominio pubblico la strumentalizzazione a suo danno da parte di un boyfriend troppo interessato alle agevolazioni in materia petrolifera; Lupi lascia la carica governativa per una questione miserevole di regaletti sollecitati e ottenuti, rivelatori di una mentalità da borghesuccio ossessionato dagli status symbol. Ora – buon ultimo – il Poletti inciampa e casca su dichiarazioni da padrone delle ferriere in pieno delirio di tracotanza.

Una foto di gruppo che rivela impietosamente l’attuale livello della classe dirigente nazionale, colta nel punto di intersezione tra economia e politica. Un mix di inveterati presidiatori di poltrone; per cui risulta pleonastico domandarsi come mai è dalla seconda metà degli anni Settanta che qui da noi vige una sorta di serrata degli investimenti, per cui il sistema d’impresa si è ridotto a quella poca cosa che ora gli speculatori d’oltralpe raccattano senza trovare soverchia resistenza; perché in questo Paese la parola stessa “politica industriale” produce immediate reazioni allergiche.

Constatazione che porta alla luce un ulteriore elemento dell’inadeguatezza renziana, rimasta in penombra durante il recente rodeo referendario: la fregola di accreditarsi in una sorta di mondo billionaire, popolato da riccastri ed esibizionisti come scelta di campo. L’Italia ingaglioffita in questi trent’anni senza sviluppo e tanto accaparramento, di lusso e impoverimenti. Di politica come ascensore per carrierismi spudorati. L’Italia del lavoro dimenticato. Che se torna a dare segni di vita, magari raccogliendo tre milioni di firme contro l’imbroglio dei voucher marcati Giuliano Poletti, potrebbe avviare un recupero di valori pre e post renziani. Come premessa per l’uscita  da questo girone infernale.

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