La scorsa settimana la giovane Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), di cui Antigone è parte, ha consegnato per la seconda volta i suoi Premi per le libertà civili.

La cerimonia si è svolta all’Impact Hub di Milano e ha visto sfilare le 11 storie premiate una dopo l’altra, insieme all’accompagnamento musicale di Angelo Aquino invitato a suonare dal carcere di Bollate (Mi). È stata una serata entusiasmante e commovente allo stesso tempo. Ha riempito di carica e tenerezza tutti i presenti. Storie nascoste, eroi dei diritti umani che fanno il loro lavoro lontano dai riflettori, piccole enormi vicende che mostrano una società piena di valori, solidarietà, rispetto per la dignità di tutti. Tanti linguaggi differenti – da quello giuridico a quello sportivo a quello giornalistico a quello della militanza più classica – che si rivelano tutti vincenti e contaminatori.

Il linguaggio giuridico degli avvocati del processo Plan Condor, che dopo decenni è riuscito a gettare luce di verità sulle vite di bambini, oggi uomini, strappati alle loro madri e ai loro padri desaparecidos nelle dittature sudamericane degli anni Settanta e allevati dagli assassini dei loro genitori. Il linguaggio giornalistico di Valerio Cataldi, che senza mai cedere al sensazionalismo ha saputo aumentare la consapevolezza di tutti sul dramma della crisi dei rifugiati e sul Centro di accoglienza di Lampedusa.

Il linguaggio sportivo di Salvatore Cimmino, che a quindici anni deve amputarsi una gamba a causa di una malattia e solo dopo i quaranta decide di entrare in acqua e usare il nuoto per attirare l’attenzione sui diritti negati ai disabili (dopo soli otto mesi, nel 2006, compie la sua prima traversata senza protesi: 22 chilometri, da Capri a Sorrento). E tanti altri, che a volte senza neanche rendersene conto hanno dato contributi belli e duraturi a tanti ambiti dove i diritti umani sono purtroppo ancora a rischio.

Racconto la vicenda di uno di loro, Don Ettore Cannavera, che fino al maggio del 2015 era cappellano presso il carcere minorile di Cagliari. Lo è stato per 23 anni. E poi si è dimesso. Ha sofferto a lungo questa sua decisione, ha spiegato. Ma si è sentito di doverla prendere in risposta a un sistema, quello delle carceri minorili, che non condivideva più. Il modello di carcerazione del nostro Paese, ha spiegato ancora, è pensato per gli adulti. Ai ragazzi si danno le stesse risposte, che tuttavia non possono essere quelle adatte. Si trascura di instaurare con loro una relazione di tipo educativo. Si mira a contenerli, come fossero dei pacchi, e così è più facile per tutti.

Servono comunità di accoglienza, serve una visione pedagogica. E allora tutti gli sforzi di Don Ettore si sono riversati sulla sua storica Comunità La Collina, ancora nel cagliaritano, da lui fondata in una struttura ricevuta in eredità dalla sua famiglia. Accoglie da decenni ragazzi in misura alternativa, insegna loro un mestiere, li rende autosufficienti, li fa vivere del loro lavoro con dignità, senza assistenzialismi o facili sconti di vita.

Prima di licenziarsi da cappellano, Don Ettore – che nella sua cappella accoglieva ragazzi detenuti di ogni credo religioso – aveva formalmente rinunciato allo stipendio dello Stato italiano. Sì, perché i cappellani nelle carceri sono pagati dallo Stato, non dalla Chiesa. A lui non pareva giusto.

Articolo Precedente

Ora lo dice anche l’Onu: ‘Le comunità rom in Italia sono discriminate’

next
Articolo Successivo

Adozioni gay, coppia canadese fa causa a Giorgia Meloni: “Usò nostra foto per manifesto omofobo”

next