Secondo Giuliano Poletti i giovani che lasciano il paese “non sono necessariamente i migliori”. Questo volendo tenere fede alla immancabile rettifica del caso, perché l’affermazione iniziale faceva riferimento a “gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.

Lasciando da parte i toni, non esattamente in linea con quello che ci si potrebbe attendere da un ministro, e la troppo facile ironia verso un governo che dimostra la propria attenzione verso i giovani scegliendo una sindacalista al ministero dell’Istruzione, proviamo a concentrarci nel merito della questione: o chi rilascia dichiarazioni del genere non ha idea delle drammatiche conseguenze per il sistema Paese dell’emigrazione giovanile, aggravata dall’elevato livello di istruzione della maggioranza di quelli che si trasferiscono, oppure ce l’ha e deliberatamente prova a distogliere l’attenzione dalla gravità del problema. In nessuno dei due casi il ministro fa una bella figura.

Ma proviamo a guardare in faccia il problema senza scomodare difficili modelli economici e complicate teorie, perché è sufficiente una dose standard di senso comune. Quanti giovani tedeschi, olandesi o francesi troviamo negli info point delle nostre meravigliose città turistiche? Quanti giovani inglesi, danesi o spagnoli servono il caffè nelle nostre città o siedono alla reception degli alberghi italiani? Rovesciando il punto di vista, quanti giovani italiani trovate invece in quelle posizioni in giro per l’Europa?

Entrando nel problema e mettendo da parte per un momento quelli bravi, i migliori, che all’estero vanno a fare le cose per le quali hanno studiato o hanno competenze, dovrebbe interessarci che sia attraente per alcuni italiani andare all’estero anche a fare lavori che non richiedono qualifiche di cui dispongono?

C’entrerà qualcosa un tessuto economico che non cresce da decenni, una struttura sociale che antepone la fedeltà e le relazioni al merito, un apparato statale e un sistema fiscale capaci di scoraggiare qualsiasi velleità imprenditoriale? Questo per tacere dello schema Ponzi che regola il profilo previdenziale dato che le informazioni in proposito sono scarse e lacunose ed è improbabile che i giovani emigranti ne tengano conto.

Ma tutte queste vicende non sembrano interessare il nostro ministro, forse per motivi di opportunità considerando che fa parte di un esecutivo che, nella versione con-Renzi (oggi c’è quella senza, ma la sostanza non cambia) ritiene politica utile finanziare gli anziani per andare in pensione in anticipo rincarando il conto per chi è più giovane; forse per miopia, considerando che trascurare l’esodo volontario dei più giovani è un po’ come segare il ramo su cui si sta seduti.

Non sappiamo se sono “i migliori” ad andarsene, signor ministro, e porre la questione in questi termini e funzionale solo a distogliere l’attenzione da una realtà sconveniente per la narrazione politica dell’esecutivo di cui lei fa parte. Una volta si andava via con la valigia di cartone per cercar fortuna e, possibilmente, spedire un po’ di denaro a casa. Oggi, quando si sposta un giovane qualificato, il Paese non perde solo un rilevante contributo alla crescita potenziale futura, ma rinuncia nell’immediato ai contributi previdenziale e alle imposte di cui ha così tanto bisogno per mantenere un apparato statale elefantiaco e ritardare il collasso di un sistema previdenziale insostenibile. Se un ministro non comprende queste cose è grave, se le comprende e cerca di distrarre l’attenzione, a mio modesto avviso è anche peggio.

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