Profuma di Stanley Kubrick la notizia di oggi, 19 dicembre 2016, riguardo all’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007: l’immagine omicida, dura e inesorabile, contro il puro ragionamento e la contorsione intellettuale. Il bisogno di “toccare” la prova del delitto contro la prova di responsabilità derivante dal “ragionamento a contrario” (chi mai avrebbe potuto camminare su quel pavimento senza sporcarsi le scarpe?). Insomma: la fisicità contro la speculazione intellettuale. Claudia Mazzucato in “Il mondo senza immagini dei giuristi” esprime con chiarezza lo scontro immagini-parole; uno scontro che ha effetti decisivi sul “sentire giudiziario”. Il mondo senza immagini non convince e non convincerà mai.  Nella ricostruzione giudiziaria della mattanza di via Diaz ad Erba si è creduto a tutto perché una delle vittime avrebbe riconosciuto in Olindo Romano il proprio aggressore, colui che ha tentato di sgozzarlo.

I fatti di oggi: la cronaca giudiziaria di questo lunedì mattina si apre con la notizia del ritrovamento di un profilo di Dna, diverso da quello di Alberto Stasi, sotto le unghie di Chiara Poggi. Per l’omicidio di Chiara è in carcere, ormai da un anno, Alberto Stasi, all’epoca fidanzato della giovane vittima. E’ stato lui a trovare il corpo, dare l’allarme ed essere, contemporaneamente, il principale sospettato. Ed, alla fine, l’unico condannato. La difesa di Stasi si è sempre battuta con la maestria che contraddistingue il prof. Giarda, il figlio avvocato e l’intero staff dello Studio. Pochi avrebbero creduto nella possibilità di scagionare Alberto. Va anche detto che la prova nei confronti di Alberto era tutt’altro che schiacciante; mancava di “fisicità”. Di quell’elemento “estetico” decisivo che Kubrick ha sempre stigmatizzato come il principale deficit del diritto applicato.

Piuttosto, la trama del giallo di Garlasco, ricorda la letteratura investigativa del Novecento, dove la genetica non era ancora diventata lo strumento principale per stanare il colpevole e dove ci si accontentava delle testimonianze e dall’impronta digitale. La dattiloscopia, in questa vicenda, non gioca certamente a favore di Alberto: ci sono le sue impronte sulla scatola della pizza acquistata la sera prima del delitto e c’è pure una sua impronta digitale sul dispenser portasapone del lavandino nel bagno dove l’assassino è transitato nelle immediatezze del delitto (si trovano, a terra, le impronte di scarpe insanguinate). Certo: Stasi ha sempre detto che quell’impronta digitale nulla ha a che fare con l’azione omicidiaria e l’ha lasciata in una delle tante occasioni in cui si è recato da Chiara, sua fidanzata.

E’ vero e intuitivo, ma è altrettanto anomalo che il suo “segno digitale” sia rimasto, in tutta la casa, esclusivamente sulla scatola di pizza comprata la sera precedente e su quel portasapone prossimo ad uno dei luoghi dove si è lavato l’assassino. Ma oggi la criminalistica giudiziaria offre uno strumento più convincente, o meglio, più estetico “alla Kubrick”: il Dna. E’ l’elemento che fa scattare nel cervello l’idea di avere la foto dell’omicidia. E non bastano dati genetici esterni alla scena del crimine, come accaduto, sempre nel giallo di Garlasco (il Dna sui pedali della bicicletta di Stasi) ed anche nella ricostruzione della strage di Erba (il Dna “comparso” sul tappetino battitacco dell’automobile di Olindo a ormai due settimane dal compimento dell’eccidio).

Ci vuole l’impronta genetica sul luogo del delitto e, meglio ancora, sul corpo stesso della vittima. Si ripete: è un fatto di estetica giudiziaria che ha conseguenze decisive nella cognizione giudiziaria; è il rimedio visivo alla carenza di dati visivi tipica del processo. Può sembrare una banalità ma, al contrario, è un dato di cognizione determinante per il cervello umano. Cosa ne sarà di questa novità processuale è presto per dirlo.

Mediaticamente la difesa di Stasi ha assestato un gran colpo. Ha offerto l’immagine di Chiara che si difende dall’assassino; dell’aggressore che lascia sul corpo della giovane la testimonianza della sua azione aggressiva. Giuridicamente si tratta di elementi che, per buona parte, erano già emersi durante il dibattimento di secondo grado. Quindi, salvo sorprese, prima di fondare una revisione che colga nel segno, c’è bisogno di altro. Ma si tratta di quella prova estetica che ha incastrato Bossetti: il DNA sul corpo della vittima. E’ la ricaduta processuale della tematica di Shining di Kubrik: testo contro immagine. E’ la tematica evangelica contenuta nel passo “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.

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