di Stefano Manganini

Ormai l’elefante nella stanza che fino a ora abbiamo cercato di ignorare è diventato così grosso che è ridicolo fare finta di non vederlo. Di tutto quanto è stato detto sulla Brexit, sulle elezioni in America e sul referendum in Italia solo pochi hanno colto il lato che più dovremmo temere: la tacita e implicita accettazione di quello che gli anglofoni chiamano post-truth (post-verità).

Con questo termine si intende non ciò che viene “dopo la verità” in senso cronologico, ma il superamento della verità e del suo valore fino al punto di determinarne la perdita di importanza. I fatti sono ridotti a essere una pericolosissima appendice putrescente che può minare la verosimiglianza del messaggio, provato o meno, che vogliamo trasmettere. Non importa che quanto è detto sia vero, l’importante è che se ne parli. E’ Andy Warhol. Tutto è il contrario di tutto. E’ Marcel Duchamp.

Il processo di content creation può essere definito come la creazione di contributi che serviranno per mantenere e supportare mezzi di comunicazione per lo più digitali (siti web, blog, social media, ecc.) o per nuove tecniche pubblicitarie quale il viral marketing. Ogni volta che un utente apre un articolo di blog inconsciamente genera guadagni per qualcuno grazie alla pubblicità in esso contenuta. E fin qui nulla di male. Tuttavia, scavando un po’ più in profondità, scopriremo che una delle regole di base della content creation spiega che gli utenti sono più inclini a condividere articoli e informazioni i cui titoli suscitano emozioni quali rabbia o paura per i propri cari. Tristemente, ne deduciamo che è sufficiente un articolo titolato I terremotati nelle tende e i clandestini negli hotel oppure La marijuana cura il cancro per convincere alcuni a condividere questi articoli senza avere neanche pensato a verificare la correttezza dell’informazione. Scagli la prima pietra chi non ha mai visto nulla di simile condiviso sui social media di amici.

E’ interessantissimo l’esperimento sociale (in realtà pesce d’aprile) condotto dall’organizzazione no-profit americana di radio libere Npr: dopo avere postato sulla loro pagina Facebook un articolo titolato Perché l’America non legge più?, hanno ricevuto una miriade di commenti, ma ben pochi si sono resi conto che il testo dell’articolo non aveva nulla a che fare con quanto indicato dal titolo. Come in molti altri casi gli utenti non hanno letto l’articolo ma si sono fermati alla copertina riuscendo a estrapolare un’informazione frammentaria, senza fondamento e, soprattutto, senza che questa sia stata provata. Anzi, si sono spinti oltre, si sono permessi di commentare senza avere letto.

Se estendiamo questo principio notiamo che l’informazione superficiale può generare mostruosità che troppo spesso sono la causa scatenante della rabbia, xenofobia e odio dei più disinformati. La fame di like, l’anonimato e il sopracitato ritorno economico rendono vana ogni possibilità di imporre una qualsiasi etica sul processo di content creation. Se ogni creator male informato (o in malafede) ha la possibilità di divenire fonte d’informazione, la cui circolazione sarà commisurata ai guadagni, allora siamo destinati all’incapacità di discernere tra quanto è vero e quanto è falso come nelle peggiori dittature di stampo orwelliano.

E come se tutto questo non bastasse, un’altra regola della content creation (o viral marketing in questo caso) vuole che quante più persone condividono un contenuto, quanto più un utente è portato a fare lo stesso. Insomma, quel maledetto tasto “condividi”, per dirla con Umberto Eco, da “voce a legioni di imbecilli” e noi continuiamo a fingere che si tratti solo di un fenomeno innocuo.

Fino a quando continueremo a credere che si tratti di un problema che affligge solo personaggi alla Napalm 51 di Crozza sarà il nostro intelletto a uscire sconfitto dal mondo dei social media e dall’informazione lasciata nelle mani dei content creator. Il sonno della ragione sta generando mostri e noi ce ne renderemo conto solo quando sarà troppo tardi. Kondividi anke tu se sei indignato.

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