Ivan ha 20 anni e viene dalla Bulgaria. E’ un ragazzo rom. Lo è anche Anina, giovane donna rom che vive a Parigi. Inconsapevolmente ho incrociato la storia delle due esistenze nella notte dell’8 dicembre, ventiquattro ore prima che iniziasse la Giornata che ricorda l’approvazione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Quella sera con Anina eravamo a Pisa per presentare il suo libro “Sono rom e ne sono fiera. Dalle baracche romane alla Sorbona” all’interno di una Chiesa Valdese. Ad accompagnare la presentazione un gruppo di adolescenti della comunità rom pisana, pieni di domande e carichi di attese. E’ stata una serata illuminata dalla speranza e segnata dal desiderio di sognare. Il tutto nella ricerca di ridefinire una identità, quella rom, troppo spesso crocifissa su immagini stereotipate.

“Le nostre sono identità multiple – ha ripetuto Anina – Io sono rom, sono francese e sono rumena. E’ questa l’Europa che siamo chiamati a costruire. L’Europa dei diritti dove tutti, anche i rom, abbiamo qualcosa da dire. L’Europa che vada oltre i nazionalisti e le identità cristallizzate”. A Pisa, la notte dell’8 dicembre, abbiamo tutti sognato.
Nelle stesse ore Ivan terminava il suo incubo notturno nella sua baracca costruita nel “Ghetto dei Bulgari in provincia di Foggia. La sua notte, contrariamente alla nostra, è stata illuminata da un tragico rogo nel quale restava intrappolata la sua breve esistenza.

Passare da un bel sogno a un incubo non è facile. Anina descriveva il percorso che l’ha portata a diventare avvocato e difendere i diritti umani mentre Ivan, ragazzo senza diritti, chiudeva la sua vita davanti al fuoco. Tutto in una notte. Nella medesima notte.

Non c’è fatalità nelle due storie perché i loro finali erano da prevedere. Non è un caso che Anina studi alla Sorbona e che Ivan sia morto carbonizzato dentro la sua baracca. Entrambi sono partiti dallo stesso punto di partenza, quello dove si trova un bambino rom che nasce e vive nella povertà: la prima ha avuto opportunità che ha voluto e saputo cogliere, il secondo è rimasto chiuso in un corso di vita segnato dalla nascita. Anina oggi studia a Parigi grazie all’incontro con alcune persone e alle opportunità di uno Stato che ha saputo garantirgli un percorso scolastico di eccellenza. Ivan è morto per colpa di amministratori che lo hanno dimenticato, che da anni sanno e si girano dall’altra parte riempendosi la bocca di parole vuote. Ivan viveva nel “Ghetto dei bulgari” di Borgo Mezzanone, da anni popolato da centinaia di famiglie rom che nel pendolarismo tra Bulgaria e Italia sopravvivono sotto le regole del caporalato. Delle condizioni drammatiche dell’insediamento, abitato anche da neonati e bambini, tutti sapevano da anni e nessuno ha fatto nulla.

Non c’è fatalità nelle loro storie, ma piuttosto responsabilità chiare e precise.

Nella Giornata dei Diritti umani, celebrata il 10 dicembre, io punto il dito verso coloro che, direttamente o indirettamente, si sono resi responsabili della morte di Ivan. Prima di tutto verso l’amministrazione di Foggia, paralizzata davanti alle condizioni drammatiche della comunità rom di Borgo Mezzanone e complice indiretta di un sistema di moderna schiavitù gestito dai caporali locali. Lo punto verso quelle organizzazioni sindacali e quelle associazioni del privato sociale che anche nella salvaguardia dei diritti fondamentali hanno fissato un argine alla loro azione: al di sopra dell’asticella ci sono i migranti da tutelare; al di sotto i rom, categoria indifendibile. Lo punto verso i media che, salvo rare eccezioni, non hanno riservato una sola riga al tragico epilogo di Ivan, della sua comunità, della sua vita fatta di stenti. Lo punto verso l’ipocrisia delle nostre Chiese, quelle lontane anni luce dall’insegnamento di papa Francesco. Ma lo punto anche verso noi stessi, la nostra indifferenza, la nostra incapacità di indignarci, di provare rabbia di fronte all’ingiustizia.

E’ proprio qui che bisogna partire, dall’ingiustizia. La stessa per cui oggi in Italia se nasci in una baraccopoli hai un destino segnato dalla povertà, mentre se nasci nel caldo di una casa il ventaglio di possibilità si allarga verso orizzonti diversi. E dell’ingiustizia che ha ucciso Ivan, volenti o nolenti, siamo tutti complici e responsabili, nessuno escluso. Non basta la bella storia di Anina, la ragazza rom passata dalle baraccopoli romane alla Sorbona, a condonarci le colpe.

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